Fabrizio Battistini, Corriere della Sera, 30/6/2009, 30 giugno 2009
«NON SONO FIGLI DI MICHAEL DEVONO CRESCERE NELL’EBRAISMO»
GERUSALEMME – Se guerra dev’essere, che sia di religione. E se bisogna spolpare il dio del pop, o quel che resta del suo regno, cominciamo a chiarire di quale Dio si parla.
La telefonata a un amico rabbino, la visita a un avvocato specializzato, la soffiata a un giornalista del Jerusalem Post e la polemica può partire: dal club delle finte mogli di Michael Jackson, esce allo scoperto Debbie Jeanne Rowe, 51 anni, l’australiana che lavorava da infermiera e negli anni ”90 affittò l’utero, scrissero i tabloid, per dare a Jacko i due primi figli. Debbie rispunta da un ranch della California dove alleva cavalli, avendo rinunciato a crescere i suoi bambini dietro buonuscita da 8 milioni di dollari, e rivendica il ruolo di parente biologico. Di più: nella sfida giudiziaria per l’affidamento, ora ricorda a tutti di chiamarsi Deborah, d’essere ebrea, di volere che i ragazzini crescano nei valori dell’ebraismo e in definitiva di non aver mai tollerato che stessero con Michael, a un certo punto della vita irretito dall’Islam e circondato da gente decisa a fare degli eredi due piccoli musulmani. La guerra di Rowe è già cominciata. «In questo momento, i pensieri della signora sono rivolti alla perdita», dice il suo avvocato, Marta Almli. Il momento durerà poco: a leggere la stampa israeliana, per riavere in casa Prince Michael Joseph Jr, 12 anni, e la sorella Paris Katherine, 11 – concepiti con l’inseminazione artificiale e probabilmente nemmeno con il seme di Jackson, una vecchia indiscrezione rilanciata dal quotidiano britannico News of the World secondo il quale la Rowe avrebbe ammesso di essere ricorsa a un donatore anonimo ”, Debbie esigerà il riconoscimento dell’ebraicità dei due pargoli. Le voci (smentite) su un interesse della rockstar per il Corano circolarono l’anno scorso, quando Michael frequentava Cat Stevens, oggi convertito Yousef Islam, e si faceva pagare i debiti dal principe ereditario del Bahrein.
«Intorno a Jackson – dice Iris Finsilver, altra legale di Debbie – circolavano persone che poco c’entrano con l’ebraismo»: le guardie del corpo erano selezionate dalla Nation of Islam di Louis Farrakhan, l’afroamericano antisemita. Pure la tata ruandese dei bambini e uno dei fratelli di Michael, Jermaine, sono attivisti del movimento musulmano Usa. Che cosa c’entri tutto questo col post mortem, lo stabilirà il giudice. Che ieri ha fatto una prima scelta: Prince e Paris, al momento, stanno coi nonni. Per Debbie non sarà facile dimostrare che il suo matrimonio non fu una farsa o spiegare quanto abbia realmente visto i figli, nell’ultimo decennio. Dopo il divorzio, fu lei a rinunciare per iscritto a ogni diritto («Michael è un padre meraviglioso e non intendo dividere il ruolo di genitore: lo fa così bene, senza di me»), salvo ricredersi quando scoppiò lo scandalo della pedofilia, rivolgersi a un tribunale e ottenere un nuovo accordo segreto. La causa riparte, adesso. E a chi pensa maligno che interessino più i diritti d’autore che quelli di tutore, Deborah-Debbie oppone la nobile lotta per l’identità: «Quando mi disse la prima volta d’essere ebrea, rimasi di sasso – ammette il rabbino Shmuley Boteach, amico di Jackson ”. Mi sembrò incredibile che Michael non me l’avesse mai rivelato. E che nessuno di noi sapesse che Prince e Paris, nati da un’ebrea, lo fossero pure loro. Alla fine mi sono dato la spiegazione più semplice». Quale? «Che nemmeno Michael lo sapesse». Il rabbino non nasconde qualche perplessità e la confessa al Jerusalem Post: «Io non so se la Rowe sia una praticante...». D’una cosa non dubita, però: «Nel momento in cui si dimostrano le radici dei figli, la madre ha ragione: devono essere educati come tutti i bambini ebrei».