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 2009  giugno 30 Martedì calendario

BAGDAD HA PAURA DI SVEGLIARSI IRANIANA «DIETRO LE BOMBE LA MANO DEI MULLAH»


BAGDAD – «Nessuna buo­na notizia dalle strade di Teheran: i miei amici stanno bene, ma è sempre più du­ra ». Giovane regista irania­na, emigrata in Australia, tor­nata in Iran, la sua famiglia a Dubai, lei ora in Iraq: gira un documentario sulla 17enne di religione yazidi lapidata a morte nel 2007, linciata dalla folla (e dai parenti) in un vil­laggio vicino Mosul perché amava un musulmano. Qual­cuno riprese l’omicidio con il cellulare, il video finì su Youtube.

Doaa Kalil Aswad non ha pace neanche morta. Qualcu­no ha sfregiato la lapide. La regista ha fatto in tempo a ve­derla, prima di essere caccia­ta dagli abitanti. Il suo nome è meglio non citarlo, perché vuole tornare a Teheran. «Da piccola correvamo nei rifugi quando gli aerei iracheni ve­nivano a bombardare. Ma non porto rancore, c’era la guerra».

E adesso cosa c’è? Dalla ca­duta di Saddam tra Iraq e Iran vige una pace diffidente fatta di inchini e veleni, visi­te e congiure. La rivolta di Teheran dopo le elezioni del 12 giugno ha ingarbugliato ancor più le carte della diplo­mazia e i sentimenti della gente. «Gli sta bene agli ayatollah – dice Abu Omar, un barbiere del quartiere sun­nita Yarmouk – così impara­no a immischiarsi nei nostri affari». «Ma Mousavi è stato primo ministro durante la guerra contro di noi», dice un avventore. Un altro ribat­te: «E Khamenei allora? Anco­ra peggio: era presidente del­la Repubblica quando i pa­sdaran si lanciavano sulle no­stre trincee». I rancori del 1980-88 si sovrappongono ai mugugni per le ingerenze ira­niane nella politica (e nella guerriglia) irachena, argo­mento favorito nei caffè. C’è chi vede negli ultimi attenta­ti a Bagdad la mano dei «gruppi speciali» oltre-confi­ne. Obiettivo? «Distrarre il mondo dalle proteste di Teheran».

Nel Sud sciita i giudizi so­no opposti. A Najaf c’è un ospedale iraniano. All’aero­porto nuovo di zecca arriva­no e partono i pellegrini fa­coltosi. Nelle città sante di Karbala e Najaf il 12 giugno migliaia di iraniani hanno po­tuto votare per Ahmadinejad o Mousavi. Difficile trovare oggi un iracheno che si schie­ri con l’Onda Verde. «I giova­ni che si battono per una so­cietà più laica meritano il no­stro applauso, dovremmo se­guire il loro esempio», dice al Corriere il pittore Qasim Sabti. Le autorità hanno scel­to lo status quo. Il presidente Talabani ha inviato un mes­saggio di felicitazioni a Ah­madinejad. «L’instabilità ci preoccupa» ha detto il mini­stro degli Esteri Zebari. Nes­sun commento dal premier Maliki, attento a non irritare Teheran che non ha gradito l’accordo sulla sicurezza tra Washington e Bagdad. Di al­tro tenore le reazioni dei gruppi sunniti di minoranza, tenacemente anti-iraniani, e di qualche raro battitore libe­ro come il curdo Mahmoud Othman, secondo cui «Ahma­dinejad non è un moderato e con lui al potere le tensioni aumentano».

Il nuovo Iraq non vuole un nuovo Iran. Due vicini che condividono un milione di morti in battaglia e 1.500 chilometri di confine. In quattro anni gli scambi sono quadruplicati. Con strane di­storsioni: nei negozi di Ba­gdad ovest non si vendono prodotti importati dalla Re­pubblica Islamica: «La gente ha paura che siano avvelena­ti, l’anno scorso a Kut 160 soldati sono rimasti intossi­cati », dice un negoziante di Al Mansur. Formaggi e yo­gurt made in Iran trovano in­vece acquirenti nella zona a est del Tigri, a maggioranza sciita (il 60% degli iracheni). Dai latticini al banco della po­litica- moschea: i principali partiti sciiti, entrambi di ispi­razione religiosa e dunque ri­vali, fanno a gara nello zelo: sia Abdel Aziz Hakim, leader del Consiglio Supremo Isla­mico, che l’ex guerrigliero Moqtada al Sadr hanno subi­to spedito telegrammi al «vincitore» Ahmadinejad. Il postino non ha fatto molta strada. Hakim è in Iran per curare un tumore ai polmo­ni, Moqtada per studiare da ayatollah.