Tommaso Labate, Il Riformista 28/06/2009, 28 giugno 2009
QUINDICI ANNI FA. WALTER E MAX AI TEMPI DEL FAX
«Veltroni è persona intelligente e poi non sembra un russo. D’Alema, invece, un po’ russo sembra davvero. E comunque, anche se dovesse essere eletto lui segretario io non cambio idea».
(Lorenzo Cherubini, detto Jovanotti, 30 giugno 1994)
La vigilia della grande sfida tra il secondo e il sesto piano delle Botteghe Oscure finì per consumarsi nella tarda sera del 30 giugno. Mentre quattro piani più giù la guardia pretoriana di Achille Occhetto - e quindi Piero Fassino, Claudio Petruccioli, Fabio Mussi, Iginio Ariemma e Massimo De Angelis - decretava che forse si poteva andare a dormire tranquilli, «ché Walter ce la fa, non può non farcela», quattro piani più su la strettissima cerchia del deputato di Gallipoli si concedeva un ultimo giro sul pallottoliere gestito da Claudio Velardi. I conti erano stati fatti e rifatti mille volte fino a che la somma, che nelle ore precedenti si era sempre conclusa con una cifra diversa, non finì per attestarsi sul numeretto pronunciato da Velardi. «Duecentotrentatre», fece il "ragioniere". Livia Turco e Giovanni Lolli si contorcevano sulle rispettive sedie mentre lui, il deputato di Gallipoli, faceva di tutto per non tradire la benché minima emozione. Duencentotrentatre bastavano e avanzavano. Dodici ore dopo, quando la madre di tutte le partite era piombata in zona Cesarini, in un angolo del Teatro della Fiera di Roma Marco Minniti sussurrò all’orecchio di Velardi che «i voti della Calabria sono vostri». Fu un attimo. Quella voce, «abbiamo vinto», passò di orecchio in orecchio fino ad arrivare all’orecchio principale. Quello del deputato di Gallipoli. Che rispose selezionando accuratamente tre parole tre: «Adesso state calmi». Manco mezz’ora dopo Giglia Tedesco, dal tavolo della presidenza, avrebbe chiuso i conti con l’aritmetica: iscritti alla votazione 451, maggioranza 226, D’Alema 249, Veltroni 173, nulle 3, bianche 2. Il Consiglio nazionale del Pds eleggeva dunque Massimo D’Alema segretario del partito. La fine di una guerra breve dava inizio a un’epopea. Il primo luglio del ’94. Quindici anni fa.
Poche settimane prima Achille Occhetto aveva deciso di non ascoltare nemmeno una nota di più dell’orchestrina che suonava sul Titanic pidiessino. Il comandante, che aveva resistito alla disfatta manu berlusconiana della gioiosa macchina da guerra progressista, di fronte alla sconfitta alla elezioni europee aveva deciso di scendere per primo dalla barca che pareva diretta contro l’ennesimo iceberg. La Guerra fredda con Massimo D’Alema risaliva a due anni prima, quando Akel aveva deciso di allontanare l’odiato alleato dalla stanza dei bottoni di Botteghe oscure inviandolo a fare il capogruppo alla Camera. Al suo riadattamento del leniniano Che fare? (sottotesto: per fermare l’ascesa del Nemico alla guida della «ditta»), nel giugno di quindici anni fa l’uomo della Svolta s’inventò la carta del «nuovo». E la associò a una faccia, quella del direttore dell’Unità: Walter Veltroni.
Sulla testa di D’Alema cade una slavina di etichette che segnano sin da subito la sua corsa verso la segreteria. «Uomo d’apparato», «vecchio». Anche chi l’accosta al termine di «rinnovamento» s’affretta ad aggiungere che comunque, quel rinnovamento, è nella «continuità», come nella formula ormai obsoleta che Alessandro Natta aveva tarato su se stesso anni prima. E visto che la campagna anti-dalemiana da sola non basta per fermarne la corsa, dal cilindro occhettian-veltroniano spunta fuori la trovata del referendum interno a cui vengono chiamati i dirigenti centrali e, soprattutto, le federazioni. Il copyright dell’idea è di Walter Vitali, sindaco di Bologna fresco di elezione, che più d’uno dentro il partito considera il possibile «terzo uomo». Risposte? D’Alema chiede il congresso e invita Veltroni a scendere ufficialmente in campo. «Con lui non c’è nessuna rivalità», giura sulla dedica che il direttore dell’Unità aveva vergato sulla sua copia de La sfida interrotta, opera veltroniana dedicata a Berlinguer («A Massimo, sono frammenti di una storia comune. Con affetto, Walter»). «Ma se io vengo indicato come il Vecchio e Walter si propone come il Nuovo - insiste D’Alema - avremmo ben diritto di motivare ciascuno le proprie posizioni». Il direttore dell’Unità risponde a stretto giro: «Con il congresso che vuole Massimo perderemmo tempo. L’opposizione ha un enorme spazio politico e non c’è tempo da sprecare. Bisogna decidere tutto in una settimana».
Nella gimkana dei regolamenti interni, la consultazione proposta da Vitali diventa il modo per "sondare" gli iscritti sulle candidature che saranno presentate al Consiglio nazionale del primo luglio. Quando il fax di Botteghe oscure viene attivato per raccogliere i verdetti che arriveranno da ogni federazione d’Italia, D’Alema pare favorito. E invece, a sorpresa, Veltroni prima rimonta, poi lo sorpassa e quindi vince. «Massimo» s’aggiudica il voto di 129 dirigenti centrali contro i 118 di «Walter». Ma è «Walter» ad aggiudicarsi la sfida delle federazioni: ne conquista 64 contro le 42 di «Massimo». La sera del 27 giugno, subito dopo il verdetto dei fax, D’Alema fa capire che non è tempo di passi indietro. « strano invocare l’avvento del "nuovo" e poi pensare di risolvere le questioni in modo bulgaro. Sinceramente, credo di avere il dovere di candidarmi», dice prima di rifilare un siluro a Occhetto e alla sua guardia pretoriana. «Non mi pare dubbio da quale parte di sia collocato il peso dell’apparato centrale, quanto abbia pesato l’attivismo del secondo piano di Botteghe oscure, la sua forza in rapporto, soprattutto, alle federazioni più piccole. buffo, no? L’apparato contro "l’uomo dell’apparato"». Giorgio Napolitano tenta un’inutile mediazione tra i due candidati. Ma lo spazio di manovra, già ridotto a una strettoia dalla benedizione occhettiana caduta su Veltroni, finisce per annullarsi. Si va alla conta del Consiglio nazionale. A scrutinio segreto. Velardi da un lato e Fassino dall’altro tolgono dalla naftalina i rispettivi pallottolieri. «L’unica cosa certa è il testa a testa», sussurra D’Alema.
Il dramma inizia il 30 giugno. Ci pensa Iginio Ariemma, ex portavoce di Akel, occhettiano più di Occhetto, a rompere una liturgia pluridecennale. Ariemma, aprendo il Consiglio nazionale, sferra un attacco frontale a D’Alema e ai suoi. Parla di «concezione totalizzante» dell’apparato, «di quattro dalemiani che hanno sparso veleno a piene mani», svela dei passati tentativi di «mettere in minoranza Achille». E conclude: «Per dirla con Trentin, si rischia di arrivare a un incarognimento della situazione interna». Piero Salvagni, esponente del Pci romano schierato sul fronte Veltroni, tira le somme a modo suo e, urlando, dice di D’Alema: «Ma questo allora è un killer!». Il dibattito, però, prende la piega esattamente opposta a quella desiderata da Occhetto. Napolitano, nel suo intervento, lascia intendere il suo sostegno a D’Alema. E così, la mattina del primo luglio, quando il deputato di Gallipoli è alle repliche - quelle in cui fonderà la dotta citazione di Wittgenstein con la promessa di ritirarsi in caso di sconfitta - Occhetto si gioca la carta del tutto per tutto. Il segretario uscente arriva del Teatro della Fiera di Roma con l’obiettivo di "spezzare" l’intervento dalemiano. S’attende un applauso che però non arriva, l’uomo della Svolta. Sul Consiglio nazionale cala il gelo, su Veltroni l’ombra della sconfitta. Nel silenzio generale, soltanto la voce di D’Alema - che è quasi alla fine dell’intervento - evita che tutti sentano quello che Akel chiede all’onorevole Mariangela Grainer indicando il nemico sul palco: «Da quand’è che parla?».
Dopo il verdetto pronunciato da Giglia Tedesco, Walter Veltroni salì sul palco per abbracciare il rivale che non era ancora un nemico. «Vi abbiamo fatto divertire, eh?» fece sorridendo l’ex direttore dell’Unità rivolto ai giornalisti. Poi D’Alema pronunciò il primo discorso da leader del Pds, improntato alla riconciliazione: «In questi giorni, era inevitabile, ci si è messi addosso delle magliette. Ora tutto è finito. Ora ci attendono la lotta quotidiana e l’opposizione al governo delle destre». Quindi, sempre rivolto ai membri del parlamentino della Quercia, il deputato di Gallipoli chiuse i conti con Occhetto («La memoria di ciò che ha fatto è un patrimonio comune. di lì che siamo nati») e diede inizio alla grande epopea con Veltroni: «Le dimissioni di Achille ci hanno costretto a un confronto non solo politico ma anche umano, affrontato con civiltà, rispetto e, tra me e Walter, anche con amicizia. Il mio compito non sarà rubargli la scena ma aiutarlo a diventare un leader della sinistra. Non è stata una commedia l’amicizia, la stima reciproca, la solidarietà che ci siamo manifestati». Pochi minuti dopo lo sconfitto era già in macchina, diretto alla sua scrivania dell’Unità, dove lo aspettava un gigantesco barattolo di Nutella, omaggio della redazione, e la telefonata con la figlia Martina. «Hai visto papà che avevo ragione io? Il segretario non l’hai fatto…». E lui, di rimando: «Lo zio Massimo ci ha salvato le ferie». Lo zio Massimo, nel frattempo, era tornato al sesto piano del Bottegone. In tempo per leggere subito, e non senza stupore (Repubblica era su posizioni filoveltroniane), un messaggio che gli aveva fatto recapitare Carlo De Benedetti: «Sappi che ho tifato per te». Il primo luglio 1994. Quindici anni fa.