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 2009  giugno 29 Lunedì calendario

GHEDDAFI, LE PROMESSE DEL COLONNELLO


Anche la pillola Enel non è andata giù ai palati libici. Non un soldo nell’aumento di capitale da 8 miliardi di euro, tutto pagato da chi è già azionista del gruppo. Le dichiarazioni di intenti dei diplomatici di Tripoli lette ex ante, gli incontri preparatori tra il management guidato da Fulvio Conti e l’entourage del colonnello Gheddafi sono finiti con ottimi «mi rallegro» e possibili investimenti milionari, domani. una strategia di business e comunicazione che si consolida, già esibita dal fondo sovrano Lybian Investment Authority (e sue emanazioni) sui dossier Impregilo, Telecom, in parte Eni.
Così, a distanza di tre settimane e di un altro «per ora no, grazie», i salamelecchi del mondo politico e istituzionale al colonnello Gheddafi si possono inserire nella concreta cornice. Stando ai ragionamenti ufficiali il succo è che il rais nordafricano – ricevuto con tutti gli onori possibili e anche più, coccolato dal presidente del consiglio e dai leader d’opposizione malgrado il consueto bizzoso cerimoniale "da trasferta" – ha in serbo 100 miliardi di dollari da spendere. Sono frutto degli introiti di idrocarburi e Gheddafi non sa che farsene, perché la Libia ha un mercato interno con 6 milioni di abitanti di cui metà vivono nel deserto, senza strane idee consumistiche attorno. E un certo ruolo il dittatore ce l’ha, che da decenni tiene gli stipendi locali sopra la miseria, e calmiera con i denari di un altro fondo sovrano (l’Economic & Social Development Fund) i prezzi dei generi di prima necessità.
Così i 100 miliardi potrebbero finire in Italia, nazione con cui ci sono relazioni storiche – quasi mai facili, ma ora pacificate, non gratuitamente però – e consuetudini d’affari, fin dal blitz epocale su Fiat negli anni Settanta, da cui tutti ebbero vantaggi. Sennonché, questa solfa seguita da mesi e dei 100 miliardi ne sono stati investiti solo 3 (vedi tabella). Tutti investimenti privati, piuttosto oculati e che il rimbalzo primaverile ha avvicinato al pareggio, ma con buone prospettive. Sui tanti altri capitoli possibili, le parole vincono sui fatti. La quota più consistente, 2,2 miliardi, è in Unicredit. Un 5% azionario come eredità ampliata del 5% detenuto nell’incorporata Capitalia, e 690 milioni di prestito convertibile, che rende attorno al 6% trimestrale. Niente male, anche perché il banchiere centrale Farhat Bengdara si è seduto alla vicepresidenza di Piazza Cordusio. Poi c’è Eni, dove un piccolo pacchetto storico è stato arrotondato ma sotto l’1%, a prezzi di qualche euro inferiori al mercato attuale. Le solenni dichiarazioni congiunte con Palazzo Chigi di dicembre, per cui la Libia avrebbe potuto salire fino al 10% del gruppo divenendone secondo azionista dopo il Tesoro, hanno movimentato la Borsa di quei giorni, ma nulla più. C’è poi l’aspetto industriale dell’intesa tra Eni e Libia, che dovrebbe concretarsi in maggiori quantitativi di gas pompati nella penisola. Ma è uno scenario la cui utilità oggi va dimostrata, a lato della crisi economica che sta limando mensilmente la domanda energetica; proprio nel momento in cui più progetti di metanodotti e rigassificatori a terminale italiano giacciono su molti tavoli. E qui soldi e azioni sono finiti. Restano quote sporadiche in Olcese, polo tessile da anni in amministrazione controllata, nella Juventus (chi non ricorda le mire calciatorie di Saadi Gheddafi, uno dei cadetti del leader libico) e nelle comunicazioni con Retelit.
Ci sono poi i dossier "potenziali". Su Telecom nonostante prestigiose mediazioni – Mediobanca, che del gruppo telefonico è azionista di peso – non ci si è accordati sul prezzo. Mentre su Impregilo, opzione strategica anche per via degli impegni delle autorità italiane a colmare la carenza di infrastrutture in Libia, l’investimento africano in titoli non è alle viste. Qualche bene informato sulla saga Gheddafi, con protagoniste due mogli, otto figli e più ciambellani, tutti a contendersi i favori del rais, riferisce che dietro i tentennamenti ci sarebbe la caduta in disgrazia di Saif, secondogenito che negli anni Novanta pareva destinato alla successione, ma da tempo posto in sordina. Essersi accreditati presso Saif si starebbe rivelando un boomerang per gli imprenditori italiani, poiché Gheddafi è deciso a tagliargli i viveri. E in questa luce andrebbe interpretato l’inatteso anatema del colonnello davanti agli industriali romani: «Se corrompete, sarete puniti».
C’è poi l’aspetto delle intese di business, il programma delle quattro zone di libero scambio esentasse per cinque anni. Ma la Libia, a parte il già detto aspetto pauperistico, è un mercato interno dominato dalle imprese cinesi e nordcoreane, che a suon di prezzi stracciati hanno cacciato gli operatori turchi. Saprebbero le nostre aziende trovare un varco in questo orizzonte? In attesa della risposta, Gheddafi si appresta a un secondo, trionfale tour italiano. L’8 luglio, e stavolta si punta ancora più alto, perché grazie all’invito di Silvio Berlusconi, l’anfitrione del G8, il colonnello potrebbe stringere la mano a Barack Obama.