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 2009  giugno 29 Lunedì calendario

IL VIRUS DELLE CANZONETTE HA UNA FORMULA MAGICA


"Questi motivi sono spesso autoreferenziali: parlano di se stessi come le emozioni"

Croce e delizia delle nostre estati, e non solo, i tormentoni sono lì pronti a ghermire le nostre orecchie, a insinuarsi con perversa ostinazione nelle nostre menti, anche a dispetto della nostra volontà. Chi, del resto, non è rimasto vittima prima o poi di un insinuante motivetto, o meglio di quelli che più efficacemente la lingua inglese definisce "earworms", tarli dell´orecchio, perfette macchine di persuasione intenzionate a sopravvivere a se stesse come un virus potente e indistruttibile. Da qualche tempo gli amati-odiati tormentoni sono oggetto di interesse accademico. Oliver Sachs ne parla in Musicofilia, dedicato ad alcune estreme patologie di argomento musicale. Ora esce un intero saggio, Tormentoni (ISBN edizioni) scritto da Peter Szendy, filosofo e musicologo francese dal prestigioso curriculum. Szendy scomoda addirittura Marx, quando nel Capitale introduce il concetto di «carattere di feticcio della merce e il suo arcano», cita il flaneur di Baudelaire ripreso da Benjamin, che «vede a partire dalla cose» ed eleva a oggetti rappresentativi anche le merci triviali, il kitsch e quindi perché no, anche i tormentoni canori.
Di sicuro i tormentoni hanno compiuto imprese apparentemente insormontabili. Come la Macarena, caso clamoroso di una canzoncina che si è affermata senza una vera e propria strategia promozionale, spinta dal nulla, se non dalla sua immane, invincibile potenza ripetitiva, e ha fatto il giro del mondo, è arrivata nei paesi arabi, in oriente, declinata in ogni lingua e stile immaginabili, ha fatto ballare politici e bambini, gaudenti e pensionati. D´altra parte, afferma Szendy, «i tormentoni parlano dei tormentoni», sono spesso autoreferenziali, si celebrano in un fragore di ammiccante e lapalissiana banalità. Pensiamo a uno dei più celebri «tarli dell´orecchio» degli ultimi anni: Can´t get you out of my head, di Kylie Minogue, quella del la-la-la, la-la la-la-la-la, che tutti anche senza conoscere il titolo hanno sentito almeno una volta. Ebbene lo dice la canzone stessa: «non posso scacciarti dalla mia testa», praticamente una dichiarazione di intenti e conta poco che Kylie apparentemente parli di una storia d´amore. Sfrontatamente e con tutta la malizia di cui è capace la canzone, quando vuole essere canzonetta, parla di se stessa come una minaccia, un imperativo categorico, un feticcio-sostanza che va al cuore della materia stessa di cui sono fatte le emozioni, almeno quelle più semplici e immediate.
Merce da una parte, forza virale dall´altra, un contagio che ci rimane addosso per alcune ore, altre volte per tutta la vita, pronto a ritornare all´attacco di quando in quando, spesso senza alcun preavviso. Ma dietro tutto questo ci può essere lo stupore della grazia. Come quando Szendy si lancia in una appassionata analisi di Parole parole parole, incisa decenni fa da Mina e Alberto Lupo. «Più si riascolta questa canzone» scrive, «più essa appare come un teatro allegorico a due voci che mette in scena il dialogo tra il Parlato e il Cantato in persona, personificati». Il dire e il cantare si sfidano allegramente, confessano i propri scopi più segreti e in fin dei conti si annullano in un patto di complicità ottenuto sulle strade della banalità. Di certo Mina e Alberto Lupo non pensavano a tanto quando incidevano la canzone, ma è fuor di dubbio che per la loro stessa natura i tormentoni giochino con strutture che si avvicinano all´archetipo. Anzi è forse questo il segreto dei tormentoni? Sono l´assoluto, ben mascherato nella quotidiana banalità di un motivetto da fischiettare.