Antonio Monda, la Repubblica 28/06/2009, 28 giugno 2009
L´INCONTRO
Ferite aperte-
La famiglia, religiosa ma tollerante; l´inquieta vita amorosa; i primi passi come pubblicitario; il "realismo magico" che lo lanciò e che adesso contesta. Lo scrittore che ha avuto la vita segnata dalla fatwa di Khomeini si racconta, spiega come la scelta di trasferirsi a New York abbia rimesso in moto la sua energia e confessa il sogno di fare l´attore, che lo ha spinto a interpretare se stesso in numerosi "cameo role"
Credo che esista qualcosa di misterioso e incomprensibile, che tuttavia non è trascendente Io mi dico ateo, e dunque credo in un´anima mortale
NEW YORK
L´unica cosa di cui ti chiede di non parlare è la fatwa, e tutto quello che ha scatenato nella sua esistenza. Ma poi è lui stesso a citarla, e a parlare del 14 febbraio 1989 come di un San Valentino che non dimenticherà mai. Da quel giorno Salman Rushdie non è più uno scrittore ammirato e amato per il suo mondo interiore affascinante e sorprendente, ma una persona condannata a morte per motivi religiosi e dunque, per un tragico paradosso, uno degli uomini più celebri del pianeta. Quando lo avvicini, metti a fuoco un uomo che ama parlare di letteratura e di politica, ma intuisci subito che la ferita aperta quel giorno non si rimarginerà mai e che - al di là dell´intelligenza veloce, delle battute spiazzanti e provocatorie, di una scelta di vita nella quale la cultura alta si mescola con il glamour - attorno a Rushdie si è consolidato un alone di fragilità, forse anche di paura.
Stasera Rushdie parteciperà al Festival Le conversazioni di Capri, dedicato quest´anno ai sette vizi capitali, dove ha scelto di parlare dell´accidia. Una decisione che, conoscendo la sua storia e il suo carattere, ha colto un po´ tutti di sorpresa. Tuttavia, la riflessione accorata su un vizio che definisce «quello a cui spetta il massimo disonore» rivela un modo di concepire la vita fondato su una religione laica che pone l´etica al centro di tutto, una condizione umana nella quale le domande risultano sempre in vantaggio sulle risposte.
Rushdie si dichiara ateo ma, se si parla con lui di questioni spirituali, risulta evidente che nel suo intimo resiste il mistero del senso ultimo dell´esistenza: «Credo che esista qualcosa di segreto e incomprensibile, che tuttavia non è trascendente. Uso il termine anima perché non ne esiste uno più efficace o più secolare: credo in un´anima mortale». Chi lo conosce sa che un´affermazione del genere non è una battuta, ma una riflessione costante e ancora non conclusa che è cominciata sin dalla gioventù.
Salman Rushdie è nato il 19 giugno 1943 in quella che oggi si chiama Mumbai, ma che lui continua a chiamare Bombay, spiegando che «la decisione del cambio di nome è puramente politica e reazionaria. Un modo per segnare un taglio con il passato e forzare il percorso naturale e culturale della storia. Sono felice che il tentativo di ribattezzarla sia ignorato dalla stragrande maggioranza della popolazione, come è successo in Vietnam dove la gente continua a chiamare Saigon la città rinominata Ho Chi Minh City».
Il padre, Anis Ahmed, era un avvocato laureato a Cambridge che si reinventò uomo d´affari, mentre la madre, Negin Butt, era un´insegnante. Il valore della cultura ha svolto sempre un ruolo predominante nella sua educazione ma, ogni volta che abbiamo occasione di discuterne, Rushdie torna direttamente al tema religioso: «Sono di famiglia musulmana sciita. Mio padre era uno studioso della religione, ma non era credente. Mia madre aveva invece un´osservanza blanda. Eppure nella mia famiglia c´è un´autentica tradizione spirituale: mio nonno era un religioso aperto e tollerante, una persona come ne ho incontrate poche in tutta la mia vita. Ricordo ancora adesso l´affetto e il rispetto con cui cercava di capire da me perché non credessi. Mio nonno e in particolare il suo approccio nei confronti della religione sono stati determinanti nella mia scrittura e nella mia intera esistenza».
Prima di dedicare la propria vita alla scrittura, si è mantenuto lavorando in pubblicità. un mestiere che non è mai riuscito ad amare, ma che ricorda con gratitudine: « grazie a quella esperienza che ho imparato il senso della disciplina e della professionalità. Lo facevo esclusivamente per pagare le bollette, ma ho imparato cosa significasse consegnare un lavoro all´esatta scadenza, o a dedicare il massimo impegno affinché venisse realizzato senza difetti».
Il primo romanzo, Grimus, scritto quando aveva trentadue anni, non ebbe una grande accoglienza, ma I bambini della mezzanotte, scritto sei anni dopo, divenne un best seller internazionale: in molti parlarono di «realismo magico» per dare un nome al particolare stile del romanzo, anche se la definizione non lo ha mai convinto. «Per alcuni versi sono lusingato, perché è stata utilizzata per grandi scrittori come Borges, Marquez, Vargas Llosa e Fuentes. Ma credo che sia corretta parlando del Sud America dove, almeno in apparenza, non c´è una sostanziale differenza tra realismo e magia». Rushdie è scettico anche riguardo all´identificazione che in molti hanno fatto con il protagonista Saleem Sinai: «Ci sono molte cose in comune: siamo della stessa generazione, veniamo dalla stessa città, dallo stesso quartiere e abbiamo frequentato la stessa scuola. Ma ci sono anche differenze sostanziali: Saleem non abbandona mai l´India e il Pakistan, e invecchiando diventa sempre più passivo, sembra che le cose e gli avvenimenti lo condizionino e non viceversa. Quando presentavo il romanzo molti lettori rimanevano delusi da queste differenze».
In maniera simile a quanto accadde con la definizione di «realismo magico», la critica ha cercato sin dall´inizio della sua carriera riferimenti e ispirazioni, a cominciare da Calvino e Pynchon. Rushdie non li ha mai negati, ma sottolinea una differenza: «Calvino è un autore che amo profondamente, e la sua influenza è evidente anche nel mio ultimo romanzo, l´Incantatrice di Firenze. Mentre lo scrivevo ho sentito letteralmente la sua presenza sulle mie spalle, e ho pensato ancora una volta a libri formidabili come Le città invisibili o alla raccolta delle Fiabe Italiane. Diverso il caso di Pynchon, un grandissimo scrittore che mi ha influenzato soprattutto nei primi libri. Quella di liberarmene è stata una mia scelta: si trattava per alcuni versi di una voce troppo forte».
Ma c´è un momento nella vita di Rushdie in cui la letteratura viene travolta dalla vita: la fatwa lanciata dall´Ayatollah Khomeini dopo la pubblicazione dei Versi Satanici. Tutti gli eventi tragici scatenati in quel giorno di San Valentino hanno avuto inevitabilmente ripercussioni pesantissime sulla sua esistenza. Si è scritto moltissimo sulla vita nascosta e blindata in Gran Bretagna, la rottura per causa sua delle relazioni diplomatiche tra Londra e Teheran, e la lunga scia di sangue lasciata da fondamentalisti islamici in obbedienza all´invocazione di morte dell´Ayatollah. Ma quello che forse ancora oggi lascia più profondamente il segno è il logorio inesorabile dei rapporti più intimi, che ha portato tra le altre cose al fallimento del legame con la moglie Marianne Wiggins, sposata dopo un primo matrimonio con Clarissa Luard. In seguito Rushdie ha sposato Elizabeth West e Padma Lakshmi, e ha avuto molti altri legami sentimentali.
Da quel giorno di febbraio Rushdie ha lottato con tutte le forze per riconquistare la libertà, e solo recentemente è riuscito a vivere con relativa normalità, soprattutto grazie alla scelta di trasferirsi in una metropoli come New York, a proposito della quale confessa il proprio senso di appartenenza perché «è una città della quale sei cittadino anche se non hai la nazionalità americana». Quello che intende è che New York è la città della Statua della libertà. Ogni anno, nell´anniversario della fatwa, riceve un «biglietto di San Valentino» da parte di fondamentalisti che gli ricordano di «non aver dimenticato», ma è il primo a sostenere che si tratta «più di retorica che di una vera minaccia».
La vita ritrovata lo ha portato a scrivere nuovamente in maniera prolifica e con grande passione, a frequentare ambienti estremamente glamour e persino a togliersi qualche sfizio: oggi confessa di aver sempre sognato di fare l´attore, e negli ultimi anni ha interpretato se stesso in numerosi cameo, come ad esempio nel Diario di Bridget Jones. Nel momento di massimo pericolo non gli è stato possibile partecipare al film Lulu on the Bridge dell´amico Paul Auster a causa del rifiuto da parte delle compagnie assicurative di coprire il rischio. Ci è rimasto male e oggi spiega in questi termini la passione per la recitazione: «Da piccolo sognavo di partecipare a grandi film hollywoodiani, e mi è sempre rimasta questa debolezza. Non scambierei la recitazione con la scrittura, ma devo dire che quando mi vedo sullo schermo, provo autentico piacere. Mi sono detto che forse nel momento in cui interpreto qualcuno creo un personaggio, e si tratta di un procedimento non molto differente da quello della scrittura».
Ma il cinema lo appassiona anche come spettatore: adora Bergman, e molti dei grandi italiani come Fellini, De Sica, Rossellini e Visconti. Di The Millionaire, il film ambientato nella sua città che ha trionfato quest´anno agli Oscar, dice che lo considera niente più che un «abile spettacolo. Finché viene definito così non ho nulla da dire, ma se sento parlare di realismo reagisco duramente. Conosco intimamente quel mondo, come so bene cos´è il cinema di autentica qualità. Non scherziamo, per favore».