Stefano Malatesta, la Repubblica 28/06/2009, 28 giugno 2009
IL PAESE DEI CONTADINI ARISTOCRATICI
Memorie toscane
I luoghi
Montefollonico è un borgo del Senese, oggi turistico, ma fino a ieri centro agricolo e minerario. I suoi abitanti conducevano una vita durissima, iniziando a lavorare da quando "s´era capaci di camminà". Un libro ha raccolto i ricordi degli anziani, che raccontano fatica e povertà ma anche un´intensa vita sociale fatta di feste, musica e cacce
Montefollonico è un borgo del Senese, alto sulle colline, non ha i nobili palazzi umanistici di Pienza e nemmeno quegli scorci architettonici e quella vista sulla Val d´Orcia di Monticchiello. Ma la straordinaria bellezza del paesaggio tutt´intorno, una delle campagne più a regola d´arte che esistano, con le coltivazioni già identiche a campiture stese su tela con colori ad olio, i fondali che sfumano dall´azzurrino al turchiniccio, i casali color mattone che spezzano le linee orizzontali dei prati verdi, si riversa nel borgo dandogli un fascino che non avrebbe altrove.
Ogni tanto qualche sindaco della Toscana, dedito all´autolesionismo, prova a modificare questo paesaggio senza rendersi conto che si dà la tradizionale zappa sui piedi. La venustà della campagna toscana non è solo una cosa degna di contemplazione e basta, che viene preservata per contentare gli esteti alla Ruskin che passano da una visione estatica all´altra. Rappresenta quello che è la Ford per Detroit o la Borsa per Londra: il volano di tutta l´economia della regione. Se l´immagine di questo paesaggio si incrina e i turisti disgustati se ne vanno, i bilanci della regione sprofonderebbero senza speranza. Negli ultimi tempi le meraviglie della natura, i palazzi, i musei ricolmi di opere geniali sembrano essere stati creati come splendida cornice ad attività molto più materiche che spirituali: una continua ossessiva ricerca di cibo definito «genuino» e «naturale», che sembra diventata lo scopo primario delle masse di turisti in Toscana. Pienza, una volta chiamata città dell´arte, si sta trasformando in città del cacio, con decine di botteghe aperte lungo il corso che vendono oltre ai pecorini, anche marmellatine, salamini, prosciuttini, senza che nessuno sappia mettere un freno ad un´attività commerciale insensata e dannosa nella sua frenesia. Montefollonico si è salvata dal cacio, ma tutta l´area è dedita al culto della bistecca chianina e numerose trattorie intorno diffondono nell´atmosfera il profumo della tagliata al rosmarino, che sembra quasi un odore connaturato al posto, come il profumo del sandalo nello Yemen o il gelsomino in Sicilia.
Su Montefollonico è uscito in questi giorni un bellissimo testo, Memoria di un Paese: Montefollonico… ieri, di Renzo Butazzi, pubblicato dall´Accademia degli Oscuri di Torrita di Siena, che solo in apparenza rientra in un vistoso fenomeno editoriale letterario della provincia italiana, che da qualche anno si va beatamente interrogando sulle proprie radici. I giornali continuano a parlare della globalizzazione, che dovrebbe raggiungere anche le contrade più remote, e noi tutti siamo in attesa del momento in cui i cinesi, diventati i padroni del mondo, ci faranno tirare i risciò al posto dei coolies in un simpatico contrappasso. Ma in Toscana per la verità i paesani, non si capisce bene se per timore di questa globalizzazione di cui non vedono gli scopi o più semplicemente perché se ne fregano altamente di questi temi mondiali, hanno reagito con un comportamento che si potrebbe definire la sindrome della marmotta: ad ogni segnale che non rientra nelle loro usanze tradizionali, si vanno a rifugiare nel profondo delle loro tane. O nel proprio "particulare", come direbbe Guicciardini. A Pienza tutti hanno seguito con interesse l´elezione di Obama, ma la vera attrazione quest´anno come negli anni scorsi è stata la gara del lancio del panforte, alla quale questa volta non ho partecipato, con mio grande rammarico. L´aspetto sorprendente di questa riscoperta della civiltà contadina, non solo il lavoro dei campi, ma i modi, gli usi, le feste, le ricorrenze, gli scherzi, i motti e il linguaggio, è il suo tono accentuatamente edulcorato. Come se gli autori, quasi tutti contadini o meglio figli di contadini, che in realtà non si sono mai mossi dal borgo, non avessero capito bene quello che si raccontava in casa. Trenta o quarant´anni fa l´immagine della vita nei campi era quella di una fatica che stroncava i corpi come le menti, inumana per definizione. Anche in Toscana, dove i braccianti erano in numero limitato, non esisteva latifondo e i contadini erano quasi tutti mezzadri, vivere in campagna significava immensi sacrifici e privazioni costanti. Adesso quasi tutti ne parlano, seduti nei caffè di Montalcino, con i divani di velluto rosso, o in piazza a Pienza, come di un´età felice, una sorta di Bengodi del genere Amici miei, dove gli scherzi si alternavano alle mangiate e bevute e la vita della famiglia mezzadrile era sana e unita. Oh i bei tempi di quando Brunetto, il proprietario del bar di Pienza, andava a piedi a Siena per non perdersi la nuova quindicina. E sono molto rari gli accenni a tutta quella violenza, soprattutto sulle donne e sui bambini, che era la realtà nascosta di ogni cultura rurale. Sembra di essere ritornati ai racconti di lingua toscana infiocchettati e lustri di Bino Sanminiatelli, che girava in calessino dalle parti di Lamole, o di Gotti Lega, l´autore di Memorie toscane. Personaggi spesso di forte simpatia, avarissimi come tutti i proprietari toscani, scrivevano libri inzeppati di storie noiosissime, come la gita dallo zio arciprete che faceva il «vino bono» e l´«oio bono», le due ossessioni primarie dei toscani nella vita come nelle conversazioni, o quando erano andati a rubare le ciliegie nel giardino del curato, parlando di quegli anni come di un´età dell´oro.
Memoria di un Paese: Montefollonico… ieri ricorda un celebre saggio minimalista, il Montaillou di Le Roy Ladurie, splendido narratore. La differenza sta che il ritratto del paese occitano viene ricavato da una pazientissima analisi di testi trattati con una cura filologica estrema. Mentre Butazzi si è servito delle testimonianze dirette di sopravvissuti, che parlano una lingua finalmente non affettata, ma trasparente e chiara che suona come musica alle orecchie. Il merito del libro di Butazzi è quello di mantenere un equilibrio tra la narrazione delle miserie di un mondo ormai tramontato per sempre e tutti i momenti in cui una razza di contadini, la più tenace, la più acuta e spesso anche la più aristocratica d´Italia, riusciva a scrollarsi di dosso quelle immani fatiche e a camminare lesta e leggera godendo il panorama, il vino e la compagnia degli amici, e creando una vita sociale straordinariamente intensa fatta di manifestazione religiose, di musica, di balli, di cacce.
Nella famiglia mezzadrile si lavorava da quando «s´era capaci di camminà». I ragazzi più grandi andavano con gli adulti a seminare e a mietere e i più piccoli a badare ai maiali e alle pecore. Si lavorava dodici, quattordici, anche sedici ore al giorno e c´erano case coloniche che erano porcilaie, senza nessun servizio igienico, niente strade, niente acqua e niente luce. Da marzo fino a dicembre «’un c´era pace», nelle case c´erano pochi letti e in tre letti dormivano sette o otto persone. Quando si accendeva il fuoco, il fumo invece di andare su per il camino, si spargeva per la stanza. Ma quando arrivava il carnevale, tutti andavano a ballare anche senza orchestra, con la fisarmonica, e quelli che non ballavano si esercitavano alla rotella o andavano a vedere le corse dei cavalli nella chiesa di Renellino, o le corse a piedi, e a chi vinceva davano una gallina e un coniglio. La campagna era piena di vigneti e alla fine della giornata tutti si ritrovavano sdraiati nell´erba a sognare quando avrebbero fatto fuori il padrone.