Vanna Vannuccini, la Repubblica 28/06/2009, 28 giugno 2009
LE MOTOCICLETTE DI TEHERAN E I RAGAZZI DI TWITTER
La polizia antisommossa usa quelle rosse; i "bassiji", le milizie volontarie khomeiniste, i pesanti motorini indiani Sono il simbolo e lo strumento della repressione iraniana: armi a due ruote che piombano sulla folla disarmata lasciandosi dietro sangue e morte. Sono come i carri armati di Tienanmen, ma non danno nell´occhio
Il regime conosce i vantaggi tattici di queste unità da quando venivano lanciate contro gli iracheni nella guerra contro Saddam
Teheran
Ancora una volta, all´ultimo momento, un portone si apre, una serranda si alza per offrire rifugio ai manifestanti inseguiti a tutta velocità da una falange di polizia antisommossa che travolge la gente come birilli su un tavolo da biliardo. Gruppi di cittadini stanno cercando invano di arrivare al Parlamento, dove è stata fissata per il nono giorno consecutivo una manifestazione di protesta contro la gigantesca frode elettorale che ha regalato la vittoria al presidente uscente, Ahmadinejad, e defraudato il candidato a cui tutti sanno di aver dato il proprio voto, Mir Hossein Moussavi.
Poco prima la strada era stata bloccata dai bassiji, le milizie volontarie che Khomeini creò come modello di devozione fino alla morte alla Repubblica islamica (bassiji significa appunto mobilitati) e che ora vengono usati come strumenti d´intimidazione e di repressione. Da un vicolo dietro una moschea ne erano usciti un centinaio, armati di randelli, di fruste, con i caschi e i giubbotti antiproiettile sopra gli abiti civili. I manifestanti - ormai solo giovani, ragazzi e moltissime ragazze - si erano difesi, appiccando il fuoco ai cassonetti e lanciando sassi raccolti nel cantiere di un palazzo in costruzione. I bassiji erano arretrati, tra le grida di giubilo di tutti gli abitanti della strada. Ma il giubilo era durato poco. Subito dopo era piombata sulla strada la polizia antisommossa. Il suo passaggio aveva lasciato la strada come un campo di battaglia abbandonato, dappertutto sangue, zainetti, occhiali spezzati.
Se uno le paragona ai carri armati turriti che vent´anni fa il governo di Pechino mandò contro gli studenti sulla piazza Tienanmen, le motociclette dei poliziotti antisommossa di Teheran possono sembrare un gioco da ragazzi, e comunque qualcosa di improvvisato. Non è così. Le unità in motocicletta che piombano sulla folla possono fare altrettanti morti di un carro armato, con il vantaggio che le loro immagini in tv non equivalgono come quelle dei carri armati all´ammissione della bancarotta morale e politica di un governo. Il regime teocratico conosce i vantaggi tattici delle unità in motocicletta già dal tempo in cui, estremamente mobili e veloci, venivano lanciate sugli obiettivi iracheni durante la guerra contro Saddam Hussein. Nelle parate militari a Teheran, accanto ai supertecnologici missili Shahab-3, sfilano sempre anche le motociclette. Quelle pesanti che in occidente si chiamano streetfighters, e i grossi motorini di fabbricazione indiana con un bassij alla guida mentre un altro sta in piedi sul sedile posteriore col lanciarazzi in spalla.
Per quanto tempo si potrà tenere sotto chiave una gioventù che è più di due terzi della popolazione? Mi chiede una giovane amica. Ormai perfino Twitter non funziona quasi più. La mancanza di comunicazione, insieme alla repressione selvaggia, ha finito per bloccare un movimento spontaneo, nato perché ognuno sapeva chi aveva votato e non voleva subire un affronto così umiliante. «A voi occidentali potrà sembrare un paradosso», mi diceva questa amica accompagnandomi per le strade di Teheran, «ma noi giovani abbiamo sempre creduto che il nostro voto contasse, avesse importanza». Essere nati dopo la rivoluzione significa qualcosa in Iran. Significa per esempio credere nella Repubblica. In quegli elementi repubblicani dello Stato teocratico che all´inizio erano, almeno sotto il profilo retorico, prevalenti, mentre il potere assoluto del Leader non era ancora stato precisamente definito e si confondeva con il carisma personale di Khomeini. «Ai nostri genitori molte frasi fatte sulla partecipazione dei cittadini, o sull´islam che doveva consentire un governo giusto, apparivano ipocrite, ma noi in qualche modo ci credevamo. Per questo non eravamo andati a votare negli anni passati, era un gesto per manifestare la nostra disapprovazione». L´esperienza della rivoluzione era stata paradossale soprattutto per le donne, la cui partecipazione alla vita politica veniva valorizzata mentre si imponeva loro uno status d´inferiorità.
Per anni, dopo la delusione dovuta alla mancata realizzazione delle promesse di riforma di Khatami, il presidente che avevano eletto in massa nel 1997, i giovani iraniani erano sembrati l´incarnazione dell´apatia politica. Si esercitavano nell´escapismo: la chitarra, l´arte, lo yoga, le meditazioni nel deserto, la droga. Studiavano psicologia per capire chi erano e come tutto quello che era accaduto fosse potuto accadere. Il fuori e il dentro, il pubblico e il privato erano mondi separati. Fuori l´obbedienza alla regole islamiche, il silenzio, la simulazione. Dentro la frustrazione, e per chi se lo poteva permettere uno stile di vita occidentale. Una tensione a volte insostenibile.
La speranza che la protesta pacifica nella capitale e in tutte le maggiori città iraniane avrebbe avuto qualche effetto è durata quasi una settimana. All´inizio la teocrazia era sembrata per un momento indecisa, il rinvio al Consiglio dei Guardiani del riesame delle schede aveva fatto sperare che il Leader supremo Khamenei, che si era schierato per Ahmadinejad prima ancora del risultato definitivo del voto, si sarebbe lasciato convincere dalle centinaia di migliaia di persone in piazza. Che ci sarebbero state nuove elezioni, o un ballottaggio, o almeno qualche concessione. Ma dopo la preghiera del venerdì, tutti i sogni sono svaniti. In quella preghiera il Leader ha messo tutto il suo peso accanto a quello di Ahmadinejad, contro la tradizione khomeinista che vedeva la Guida suprema al di sopra delle parti.
«Un colpo di Stato deciso perché i radicali si sentono sotto assedio, dall´interno perché conoscono lo scontento della popolazione, dall´esterno per via della mano tesa di Obama: Khamenei è sicuro che anche il più piccolo spiraglio porterebbe al crollo del sistema islamico. Come in Unione sovietica aveva portato al crollo del sistema comunista», mi aveva detto un analista iraniano, ora in carcere: «Indipendentemente da come va a finire questa resterà una data memorabile nella storia della Repubblica islamica. Una mezza democrazia e una mezza teocrazia, come era stata finora, non potrà più esserlo: o avremo una dittatura in piena regola, oppure ci saranno riforme importanti. Questo è il senso della lotta di potere di questi giorni».