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 2009  giugno 29 Lunedì calendario

GOTTOSO, CRAPUN, MASCELLA, CINGHIALONE, PAPI L’ARTE DEI NOMIGNOLI DEI POLITICI DAL ’400 A OGGI


Con il passare degli anni soprannomi e sberleffi cedono il posto a battute da avanspettacolo

Se Caino e Abele sono alla gene­si del delitto, non si è mai tro­vato il colpevole che nella contesa politica per primo usò l’arma sfer­zante del nomignolo per ferire l’av­versario. Alcuni sospetti, caduti sul sommo Dante, non hanno tro­vato riscontri sicuri. Certo è che già nel Quattrocento al povero Pie­ro de’ Medici, spesso costretto a letto da un’invadente uricemia, i fiorentini non risparmiarono, in sovrappiù a sua Signoria, un inde­lebile «il Gottoso». Che per stare al­l’oggi, nella retorica dell’offesa, equivale a «il Gobbo» per Andreot­ti. Tradizione antica e popolare­sca, dunque, quella di irridere l’av­versario con parole che esprimo­no (o sottintendono) giudizi pe­santemente negativi e irridenti. A volte anche un vezzeggiativo, il confidenziale e allusivo Papi, con cui la Noemi di Casoria ha voluto ribattezzare l’incauto Berlusconi, può avere effetti a dir poco oppo­sti e indesiderati. Già, sosteneva Novalis: «Ogni parola è una parola di evocazione. A secondo dello spi­rito che chiama, uno spirito appa­re ». Uno spiritello magari sotto for­ma di complotto? Del resto, ag­giungeva Jorge Luis Borges: «L’uo­mo della strada indovina la stessa professione della madre di ogni passante». Tant’è.

L’arte dell’insulto politico attra­verso lo sfregio linguistico (so­prannome, calembours, doppi sen­si e giochi di parole) è stata la for­ma più antica e riparata di prote­sta popolare. Basti pensare a Pa­squino nella Roma papalina. Una vera e propria epidemia di nomi­gnoli, insomma, ha scandito an­che i Ventenni che si sono susse­guiti in Italia. Da Mussolini, detto il Mascella, a Berlusconi, passato in fretta da Sua Emittenza a Caima­no, il Belpaese forse è più ricono­scibile anche dai soprannomi di Lor Signori. A volte l’investitura è diventata una sorta di sintesi bio­grafica: l’Avvocato (Agnelli), l’In­gegnere (De Benedetti), il Contadi­no, (Gardini). E a dare ascolto a Groucho Marx, le caricature verba­li servono pure a misurare il «tas­so di Sodoma-Gomorra» di un Pae­se.

Già, perché da donna Rachele Mussolini a Veronica Lario, altra costante storica degli «Italici pian­genti » (Gaio Fratini) il frusciare delle lenzuola spesso ha fatto da colonna sonora alle vicende più se­grete degli inquilini mascherati del Palazzo. Altro che «tintinnio di sciabole» del golpista De Lorenzo, che tanto spaventarono Antonio Segni. Proprio lì al Quirinale dove Re Vittorio Emanuele III, a causa della sua bassa statura, si era con­quistato il titolo assai poco nobilia­re di Sciaboletta. Caduto il tiran­no, ma già qualcuno invocava: ari­datece er Puzzone (Mussolini), in quei primi anni euforici succeduti­si alla Liberazione – quando lo Zio Sam simboleggiava ancora gli Usa, e l’Urss era incarnata dal tiran­no Baffone (Stalin) ”, dalle urne spuntò un altro Crapun, De Gaspe­ri. Ecco l’Italia democristiana e bac­chettona (la Balena bianca). «L’era pro nobis» o «M’illumino d’incen­so ». Tanto tuonò in quella tempe­sta elettorale che di lì a poco la grandine del pettegolezzo si abbat­té devastante sui Palazzi romani. Provocando il primo scandalo del­la serie «letto e potere»: il caso Montesi. E sul palcoscenico gossip­paro apparvero il Cigno Nero (An­na M. Caglio). La testimone che aveva incontrato il marchese Cic­cio Patana Mio (Ugo Montagna), nell’anticamera del vecchio mini­stro Spataro (dimissionato). «Il successo fa scandalo/ lo scandalo fa successo», motteggiava il Signo­re di Mezz’età, Marcello Marchesi. Altri tempi, altri nomignoli.

Nella via Veneto della «Dolce vi­ta », intanto, gli intellettuali anima­ti da Maccari (il Supercortomag­giore), Longanesi (il Carciofino sott’odio), Flaiano (il Redattore cu­po) e Talarico (il Lepre), si sfidava­no tra di loro con abili e sottili gio­chi di parole; con nomignoli al cu­raro, che passeranno alla storia delle patrie lettere. Neppure la poli­tica era risparmiata. A Montecito­rio il polemista del Pci, Giancarlo Pajetta era ribattezzato: l’Acido rus­sico. Chiosava da par suo Longane­si: «Non sono le idee che mi spa­ventano, ma le facce che rappre­sentano queste idee». Gli faceva eco Fratini: «Governi pendolari/ monocolori a vela/ governi di con­vergenza parallela/ tra il giovedì grasso e le ceneri...». L’aveva vin­ta, insomma, quella leggerezza in­vocata da Italo Calvino contro «la peste che colpisce anche la vita del­le persone». Da anni ormai nell’ar­guta contesa di parole la mannaia ha sostituito il rasoio affilato di un Arbasino o dell’impertinente Ro­berto D’Agostino a cui si deve, tra gli ultimi nomignoli, il sublime Su-Dario Franceschini. La creativi­tà e l’originalità della battuta, in­somma stanno scivolando sul ter­reno militante del grossolano umorismo caricaturale d’antan.

Solo battutacce e soprannomi d’avanspettacolo. Così, se a Berlu­sconi sono toccati Al-Tappone e Testa d’Asfalto, per par condicio a Prodi è stato rifilato un rozzo Er Mortadella. Della serie, insomma: er più pulito c’ha la rogna. Alla vi­gilia di Tangentopoli (era dei «na­ni e ballerini») non era andata me­glio sia a Craxi (il Cinghialone) sia a De Michelis (Avanzo di balera). Su De Mita si esercitò con perfidia Gianni Agnelli definendolo un «In­tellettuale della Magna Grecia». Il mite Forlani fu tramutato in Coni­glio Mannaro. Nella «lite delle co­mari » tra Andreatta (Dc) e Formi­ca (Psi), il primo diede del Com­mercialista di Bari al collega di go­verno. Che, di rimando, lo nomi­nò a Comare-Lord dello Scacchie­re.

A guardare lo scenario odierno, non si può non provare un pizzico di nostalgia per gli stessi nomigno­li dei protagonisti delle tangenti al­la amatriciana: dallo Squalo (Sbar­della) a Er Monaco (Giubilo). Con i loro inquietanti nomi di batta­glia. Autentici, però, come le loro gesta malandrine. Diceva Ennio Flaiano: «La lingua si arricchisce anche con gli apporti volgari, ma è anche vero che la lingua si guasta quando la volgarità non è schietta, vorrei dire popolana, ma compia­ciuta e ammiccante...». Oggi di ple­beo, nel senso di contributo alto «dal basso», c’è ben poco nel cam­po della satira politica. La battuta, il nomignolo, lo sberleffo o la fred­dura, le contaminazioni linguisti­che rischiano allora, parafrasando il filosofo Arthur Schopenhauer, di ridursi soltanto in «calunnie ab­breviate ».