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 2009  giugno 29 Lunedì calendario

E BAGDAD GIA’ CELEBRA LA «FESTA DELLA LIBERAZIONE»


BAGDAD – Su Fort Alamo sven­tola una striminzita bandiera ira­chena. «Gli americani se ne sono andati due giorni fa», dice distrat­tamente il giovane gommista al la­to della strada. Sabah sorride e ri­parte al volante della sua auto che è un forno a quattro ruote. All’om­bra 48 gradi, l’aria condizionata fuoriuso per la tempesta di sabbia che avvolge la città. Entriamo a Gazhaliya. Ancora un anno fa era uno dei luoghi più infernali e re­moti di Bagdad. Grandi case mar­roni di 300 metri quadri che Sad­dam Hussein dava ai suoi ufficiali. Lungo questa strada che corre non lontano da quella per l’aeroporto, un giorno di normale guerra civile nel 2007, i miliziani sunniti appe­sero il cadavere di una donna scii­ta a un lampione. Ci rimase una settimana, senza che nessuno aves­se il coraggio di tirarla giù. Un vici­no, un poliziotto, nessuno. Nean­che le ambulanze venivano più a Gazhaliya. E se ci venivano era so­lo per la raccolta differenziata dei morti: feriti e moribondi li lascia­vano lì, per paura di rappresaglie da parte degli assassini appostati intorno.

Adesso la polizia pattuglia le strade. E anche l’esercito. Mamme con bambini, negozi aperti. Que­sta strada non è più un campo di battaglia: a sinistra i sunniti di Ghazaliya, a destra gli sciiti di Schole. «Da martedì centoventimi­la uomini iracheni proteggeranno Bagdad», ha detto ieri sera il tele­giornale di Al Iraqiya.

Domani è il giorno del ritiro americano dai centri abitati: «il giorno della vittoria» ripete lo spot della tv di Stato che condensa gli ultimi 6 anni in 30 secondi (la­sciando fuori gli americani): le scarpe degli iracheni sulle statue abbattute di Saddam, le dita in­chiostrate degli elettori alle urne nel 2005, facce di anziani con la ke­fiah, donne alla macchina per cuci­re. La conta dei tre anni peggiori, dal 2005 al 2008, passa veloce sen­za un’immagine. E poi la chiusa con il conto alla rovescia per il 30 di giugno. «Giorno della vittoria che andrebbe salutato con festival e celebrazioni», ha detto il pre­mier Nouri Al Maliki.

Vittoria di chi? «Di noi irache­ni », dice con calma Sabah. Vuol di­re che gli americani hanno perso? «No, solo che gli americani se ne vanno e noi vivremo in pace». Scii­ta, 60 anni, ex autista sui pulmini della Iraqi Airways, al tempo della Guerra del Golfo Sabah fu la guida del famoso giornalista della Cnn Peter Arnett («a quel tempo non ho mai pensato che Saddam potes­se cadere»). Più tardi ha trasporta­to Jon Lee Anderson del New Yorker, che ne ha fatto un perso­naggio della sua splendida «Cadu­ta di Bagdad». Al crollo del regime andò con lui a Sadr City, la fo­gna- gogna abitata da un milione di sciiti vittime speciali di Sad­dam: «Ce la siamo vista brutta, la folla e tutti quei religiosi per la strada – dice Sabah ”. Ho pensa­to: saranno questi a governarci?». Lui dice di non essere antiamericano, «però credo che via loro le cose andranno meglio. L’Iraq si scrolla di dosso un peso. La loro presenza è la nostra umiliazione, il segno che non possiamo farcela da soli». Oltre 4 mila ragazzi americani so­no morti qui... «E anche 100 mila civili iracheni. Gli umiliati non so­no mai riconoscenti. Come si fa a vivere sempre con gli estranei in casa?». Si ritirano dai centri urbani ma almeno per un po’ non se ne an­dranno: gli stessi 130 mila militari resteranno nelle basi intorno alle città... «A settembre dicono che co­minceranno a smobilitare». E l’an­no prossimo via tutti? «Obama mi sembra migliore di Bush. Manterrà le promesse».

Mentre parliamo una pattuglia con tre pickup sbuca dalla nebbia di sabbia e sfila al nostro fianco su una strada parallela. I soldati urla­no.

Un ragazzino con la divisa az­zurra senza l’elmetto ci punta la mi­tragliatrice. Sabah inchioda.

Al suo fianco Walid scrolla le spalle: «Normali», dice l’angelo cu­stode del Corriere storpiando l’ita­liano. Normale: al successivo po­sto di blocco si capisce la tensione. Un’ora fa un’autobomba è saltata in aria vicino al parcheggio della polizia. Quattro feriti civili, strada chiusa. L’ex avamposto americano si intravede là in fondo, oltre una cinta di blocchi di cemento. A chia­marlo Alamo, come il forte sotto as­sedio dove morì David Crockett, ci hanno pensato i 105 soldati del 12˚ Cavalleria che arrivarono qui nel gennaio 2008. Le «cavie» del ge­nerale Petraeus e del suo piano per ribaltare le sorti di una guerra or­mai persa: il surge, l’aumento di truppe, sparpagliate in piccole «ba­si di quartiere» miste, americani e iracheni insieme. Obiettivo: «ricon­quistare » il territorio, addestrare sul campo le unità locali e riporta­re sicurezza nelle strade dove la mattanza tra sunniti e sciiti faceva cento vittime civili al giorno.

Alamo ha resistito. La rete dei «fortini di quartiere» è stata una delle chiavi per la lenta «riconqui­sta » e il (quasi) ritorno alla vita di Bagdad. Ora questi avamposti da una sponda all’altra del Tigri, l’Ovest sunnita e l’Est sciita, passa­no alle forze di sicurezza irachene. La strada che costeggia Sadr City è trafficata. Code. Molti checkpoint. Agenti con i passamontagna con­tro la tempesta. Un carretto con l’asino tiene dietro una fila di auto. Sul muro della piccola base ribat­tezzata Comanche una mano ira­chena ha scritto una parola in in­glese: «Move». Andatevene.

I comandi Usa avevano chiesto di poterla tenere perché da lì in passato i miliziani sciiti lanciavano attacchi con razzi e mortai sulla Green Zone, la città blindata dove hanno sede ambasciate e palazzi del governo. Il premier Maliki ha detto no. Una manciata di avampo­sti resteranno comunque sotto il controllo americano (due nella Gre­en Zone, con carri armati davanti alla ambasciata Usa) come gli eli­cotteri Apache e Black Hawk reste­ranno padroni del cielo.

Alcune basi all’interno dei peri­metri cittadini, da Bagdad a Baqu­bah, sono state dichiarate «rurali» e quindi non passano di mano. Trucchi condivisi. Il governo cele­bra «il giorno della vittoria» dichia­rando il 30 giugno festa nazionale, gli americani stanno al gioco. Qual­che giorno fa, a una conferenza stampa congiunta, il portavoce go­vernativo Ali Dabbagh è arrivato con il comandante Usa Ray Odier­no con due ore di ritardo e ha det­to ai giornalisti: «Scusate, il genera­le non aveva il badge e abbiamo do­vuto perquisirlo molto».

Scherzi della vittoria, vigilia di paura. La settimana scorsa 250 ira­cheni hanno perso la vita in atten­tati. «Al Qaeda in Iraq» vuole rovi­nare la festa a Maliki. Gli americani si tengono pronti a intervenire su richiesta degli iracheni, chiusi nel­la base dorata di Camp Victory nei pressi dell’aeroporto. Chiusi a deci­ne di migliaia nella zona da cui par­tirono alla conquista del centro, nei primi giorni di aprile 2003, con una corsa spavalda di carri armati denominata in codice «Thunder Run». Il ritiro è stato più lento, me­no tonante: molti traslochi sono av­venuti di notte. Come tutti gli spostamenti e i ri­fornimenti delle unità Usa, ordine del generale Odierno: diventare in­visibili. Nei giorni scorsi, secondo quanto riportava ieri il Washin­gton Post, il comandante ha invia­to una circolare ai suoi ufficiali in cui si consiglia un minor uso di mezzi supercorazzati a prova di mi­na, i Mrap, sicuri quanto ingom­branti, in favore dei vecchi discreti e mortali gipponi Humvee, corazza­ti ma non troppo. Il portavoce del comando Usa ieri ha dovuto smen­tire la notizia: «La truppa era pron­ta a ribellarsi, c’era molto malumo­re », commenta un civile america­no dalla Green Zone. Girando Ba­gdad in auto per ore nemmeno l’ombra di un convoglio Usa. L’ope­razione invisibilità è già comincia­ta. Nel Palazzo sull’Acqua di Camp Victory i generali incrociano le di­ta. Chi è di passaggio non manca di farsi fotografare sulla sedia di Saddam, dono di Yasser Arafat, con i Luoghi Santi di Gerusa­lemme sullo schienale.

Walid, che ci è stato di recente, dice però che la cosa che l’ha colpi­to sono i pesci nel lago: rossi, azzur­ri, verdi, grandissimi e molto visi­bili, sempre quelli: gli stessi pesci di Saddam.