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 2009  giugno 29 Lunedì calendario

Anno 2025. Forse la carta stampata non sarà anco­ra sparita, ma è probabile che soltanto ristrette minoranze di lettori nostalgici, perlopiù ol­tre i sessanta, compreranno i vecchi giornali (ammesso e non concesso che sopravvivano edi­tori capaci di estrarre valore da simili mercati di nicchia)

Anno 2025. Forse la carta stampata non sarà anco­ra sparita, ma è probabile che soltanto ristrette minoranze di lettori nostalgici, perlopiù ol­tre i sessanta, compreranno i vecchi giornali (ammesso e non concesso che sopravvivano edi­tori capaci di estrarre valore da simili mercati di nicchia). Natu­ralmente – su questo gli esperti che da qualche settimana analiz­zano la crisi del business dell’in­formazione sembrano essere d’accordo – ciò non implica la morte dell’industria delle news. Acquistati per pochi centesi­mi l’uno e scaricati – come oggi avviene ai brani musicali – su computer, telefonini, palmari e nuovi dispositivi specifici (dopo il Kindle di Amazon, monitor elettronici «pieghevoli» come nel film «Minority Report»?), mi­lioni e milioni di articoli circole­ranno ogni giorno in Rete per es­sere consumati da altrettanti let­tori. Oppure ci si inventerà altri modelli di business e tecnologie oggi impensabili. Il vero problema, però, non è se l’industria delle notizie riusci­rà a sopravvivere, ma quali news verranno prodotte e distri­buite e che tipo di opinione pub­blica (posto che tale termine conservi qualche significato) contribuiranno ad alimentare. Gli scenari che ci vengono pro­spettati sono diversi, ma condivi­dono almeno tre elementi: 1) l’era dell’informazione generali­sta è tramontata. Cartacee o vir­tuali, audio o video, poche o tan­te, le news saranno rigorosamen­te personalizzate. Ognuno co­struirà il proprio palinsesto in re­lazione alle proprie peculiari esi­genze, e gusti e competenze. 2) Ogni produttore-distributore di informazioni costruirà il proprio catalogo misurando in tempo re­ale il gradimento dei lettori, i quali, con le loro scelte di naviga­zione, «voteranno» sui contenu­ti, decidendo vita e morte di argo­menti, firme e generi. 3) Comun­que si evolvano tecnologie e mo­delli di business, i costi di produ­zione dovranno essere drastica­mente ridotti, il che comporterà un inevitabile abbassamento del­la qualità del prodotto. Il terzo punto è contestato da chi sostiene che la produzione amatoriale di informazione, «cer­tificata » dal filtro degli aggregato­ri (motori, portali, ecc), è in gra­do di soddisfare qualsiasi esigen­za di qualità. Ma non è vero: ag­gregatori e blogger sono riciclato­ri dell’informazione professiona­le, per cui, se quest’ultima è sca­dente, tale sarà anche l’informa­zione amatoriale. Ma sono, soprattutto, le conse­guenze dei primi due punti a mettere i brividi. Da un lato, infatti, evocano l’immagine di un’opinione pub­blica frammentata, fatta di tante piccole tribù che condividono un numero limitato di conoscen­ze e informazioni, dotate ognu­na del proprio idiosincratico pa­trimonio culturale e dominate da capitribù (opinion leader) ca­rismatici. Dall’altro, prospettano lo scenario di un’informazione in cui le minoranze, qualunque sia la qualità dei loro argomenti, avranno accesso alla parola esclusivamente nella misura in cui faranno fatturato (pubblicita­rio). E con questo la sfera pubbli­ca teorizzata da Jurgen Haber­mas, il luogo del libero confron­to e dell’interazione fra tutte le voci del corpo sociale, sarà defi­nitivamente morta e sepolta.