Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  giugno 29 Lunedì calendario

QUANDO LA SINISTRA POTEVA ANCORA CONTARE SU UN FORTEBRACCIO


Mario Melloni, in arte e giornalismo "Fortebraccio", veniva di rado, negli ultimi suoi anni, all’Unità. Elegantissimo, salutava con pochi cenni noi "giovani", parlava poco perché praticamente senza voce dopo un’operazione alla laringe e si recava nello stanzone dei redattori capo dopo lo accoglieva, materna e assidua, Luisa Melograni. Poche parole anche con Carlo Ricchini, il caporedattore centrale e con Enrico Pasquini, il silenziosissimo capo dei grafici, poi andava via. Una presenza rara e discreta, a differenza dei suoi rumorosissimi corsivi che appassionavano i lettori del giornale e facevano disperare o morire dal ridere il mondo politico. Ne scrisse 5mila dal dicembre del ’67 all’ottobre dell’82, quando ormai molto anziano rinunciò all’appuntamento con il suo giornale. Un bel libro sta per uscire, pubblicato da Diabasis, che raccoglie molti suoi pezzi mai ripubblicati prima d’ora e introdotti da due saggi di Pasquale di Bello e Paola Furlan e dal ricordo di Michele Serra e Marisa Rodano. Sono passati 20 anni dalla scomparsa di Melloni e il libro verrà presentato da Emanuele Macaluso e dalla stessa Marisa Rodano oggi nel suo paese natio, San Giorgio di Piano in provincia di Bologna.
Mario Melloni, ricordano i suoi biografi, non amava molto parlare di sé. La sua vita è stata intensa, piena di passioni ma anche di futilità. Uomo di grande cultura, amava trascorrere ore nei salotti milanesi, Roma gli piaceva meno, e trasferiva la sua umanità e il suo spirito di osservazione sulle cose della politica nei suoi corsivi. La sua vita politica iniziò nella Resistenza, fece parte del Cln e fu mite capo della commissione di epurazione che vagliò le biografie dei giornalisti del Corriere della Sera dopo la caduta del fascismo. Diresse Il Popolo e fu deputato della Dc, un parlamentare che, andando controcorrente, discuteva con i comunisti. Ha raccontato a Guido Quaranta: «Ricordo che durante un dibattito alla Camera sulla guerra di Corea, il problema dello scambio di prigionieri provocò un parapiglia talmente assurdo tra i comunisti e i miei (allora ero democristiano) che Giancarlo Paietta mi mandò un biglietto così concepito: "Caro Melloni, perché non facciamo uno scambio di cretini?"». Un biglietto che si potrebbe scrivere anche oggi.
Nella Dc rimase fino a che Fanfani lo cacciò. Melloni e Ugo Bartesaghi, un altro parlamentare democristiano, votarono contro l’adesione al Trattato dell’Unione dell’europa occidentale (Ueo) e il gruppo parlamentare li espulse. Melloni ricorderà la brutalità di Fanfani e la levità di Moro oltre che il distacco di Andreotti. Di lì a poco, dopo aver diretto con Franco Rodano il settimanale catto-comunista Il dibattito politico, Melloni iniziò il suo viaggio nel Pci e nella stampa comunista. Prima di arrivare all’Unità, guidò Paese Sera, Milano Sera e Vie Nuove, ma non ne fu contento: «Sono stato direttore di quattro quotidiani - disse a 60 anni facendo un primo bilancio di una già lunga vita professionale - e di due settimanali, ma raramente, forse mai, ho ottenuto ciò che volevo e che mi pareva di avere ben chiaro in testa perché non so comandare e nessuno mi ha mai obbedito».
Se come direttore non sapeva comandare, come corsivista dirigeva lui la danza. Il "nom de plume" Fortebraccio lo inventò Maurizio Ferrara, padre di Giuliano e direttore storico del quotidiano comunista, per incarnare il personaggio di William Shakespeare che alla fine dell’"Amleto" raccoglie l’eredità del regno e ne diffonde gli ideali di pace e di giustizia. Sono questi ideali che forniscono a Melloni tutta la carica per fustigare la classe politica e i "padroni". Fortebraccio ha due riferimenti certi: «la fede nella cristianità e nei metalmeccanici». Penso, scrisse, che «il comunismo sia il logico sbocco per un cattolico» e per chiarire la fede nella sua seconda certezza aggiunse qualche tempo dopo: «Non c’è dubbio che sono un giornalista di élites, perché scrivo per i metalmeccanici».
Mario Melloni era un uomo dell’800. Così lo vedeva Natalia Ginsburg che raccontava «il sorriso maligno e dolce, la persona alta, imponente e fragile, i fianchi larghi e le spalle spioventi, il naso leggermente ricurvo e le mani bianche». Un signore che diceva di amare «i romanzi ma solo quelli che finiscono bene. Voglio che lui e lei si sposino e vivano a lungo felici». Il suo amore per la mondanità lo teneva lontano dallo sport: «Una volta un mio amico appena laureato in medicina mi disse che anche il gioco delle boccette era uno sport giovevole ai muscoli del braccio e utile a tener allenata la vista. Smisi immediatamente, inorridito all’idea di stare meglio». Questa sua innata signorilità da gran borghese amava mettere a confronto con i suoi nuovi compagni di partito. Raccontò di quella volta che, ancora democristiano, mentre era in un treno diretto da Milano a Roma incontrò una deputata comunista e la invitò a bere un Campari ricevendone un rifiuto, dopo qualche ora la reinvitò e si sentì rispondere: «Dio, se mi vedesse il mio ufficio quadri». Concluderà il ricordo il Melloni oramai comunista: «Mi ero sentito dire talvolta: se mi vedesse mio padre o mio fratello o mio marito. Non avevo mai saputo che esistesse un ufficio quadri e che potesse sopravvenire, vindice e temuto».
I comunisti amavano Fortebraccio. Era il primo articolo che si andavano a leggere, sia gli amati metalmeccanici sia i professori di grande dottrina. A Natale del 1982 una lettrice su un bigliettino rosso gli scrisse: «Ti voglio bene, tanto quanto il partito comunista, i bambini, la pace e il colore rosso. Stai vivo!». La sua fede nel comunismo era incrollabile e per fortuna che il Signore l’ha chiamato con sé prima della Bolognina per evitare un dispiacere a uno che sosteneva: «Dio ha spiegato ai cristiani dove e quale è il bene e ha fatto sorgere i comunisti perché lo compissero». Ma il comunismo di Melloni-Fortebraccio non è ideologico, è una cosa molto semplice e concreta: «Amare Dio vuol dire stare con chi perde il posto di lavoro o non lo ha più, con chi attende giustizia e non la ottiene». Era questo il mondo a cui pensava Fortebraccio quando fustigava Fanfani, Piccoli, La Malfa, Spadolini e soprattutto quando scriveva dei socialdemocratici che sono un vero capitolo separato della sua produzione quotidiana.
Amava, riamato, Indro Montanelli con cui scambiava colpi di fioretto e talvolta vere e proprie sciabolate. Scrisse un epitaffio per se stesso che recitava così: «Qui giace Fortebraccio/ che segretamente amò Montanelli/ passante perdonalo/ perché non ha mai cessato di vergognarsene». Al che Montanelli rispose nel suo corsivo "Controcorrente" di aver dato disposizioni per la propria sepoltura con questa epigrafe: «Vedi lapide contigua». Il gioco fra i due continuò perché Melloni, quando lesse la risposta di Montanelli, gli mandò questo bigliettino: «Ti aspetto stanotte al parco con barba e baffi finti: ti devo abbracciare».
I 5mila corsivi di Fortebraccio sono una galleria di ritratti feroci e una grande scuola di giornalismo. Partenza pacata e battuta finale bruciante. Si sono salvati in pochi dal suo umorismo rimasto inimitabile. Molte carriere sono state sommerse da una risata dopo il trattamento Fortebraccio che ironizzava anche sui difetti privati delle sue vittime: la facondia di Spadolini, l’ego ipertrofico di La Malfa, la vanità di Gianni Agnelli, l’amore per il vino di Saragat, la cupidigia di alcuni socialdemocratici. Ricordo un suo corsivo in cui parlava di un leader del Psdi che, appostato dietro un turista al Pincio, quando gli sentì dire: «Che bel posto!», esclamò urlando: «Lo prendo io!». Hanno ragione i bravi curatori del volume: «Il teatrino di Fortebraccio corrisponde al mondo di Mario Melloni, dove è tutto molto semplice: i ricchi e i poveri, i padroni e gli operai, i cristiani e i farisei, il socialismo e chi lo tradisce, gli sfruttatori e i diseredati della terra». Ce l’ha con «lor signori», Fortebraccio. Oggi ne troverebbe tanti di più, anche fra i suoi ex compagni.