Mirella Serri, La Stampa Tuttolibri, 27/6/09, 27 giugno 2009
«CON IL CORSARO PASOLINI CHE DUELLI!»
L’aspetto è mite, cordiale, gentile. E reticente: come del resto si conviene al suo ruolo di massima autorità nell’ambito del premio Strega. Il prof. Tullio De Mauro, responsabile della Fondazione Bellonci, che gestisce la gara letteraria più nota della penisola, si guarda bene dal confessare le sue simpatie più recondite, ovvero a quale scrittore in lizza per l’ambìto alloro romano andrà la sua preferenza il 2 luglio. In ordine rigorosamente alfabetico - Lugli, Scarpa, Scurati, Vighy, Vitali - i finalisti al certamen, che verrà assegnato al Ninfeo di Villa Giulia, si affacciano in bella mostra dalla sua libreria («i giochi sono tutti aperti», afferma soddisfatto dal momento che per quest’anno non si è delineato all’orizzonte alcun vincitore annunciato).
Per distrarsi dalle fatiche della contemporaneità, il padre della sociolinguistica italiana, le cui opere vanno dalla Storia linguistica dell’Italia unita alla traduzione e commento del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, confessa che la sera si delizia con l’ultimo volume delle Storie di Erodoto («mi rilassa»). Di giorno lavora a un monumentale Grande dizionario dei sinonimi e dei contrari che sarà pubblicato dalla Utet. Ma guai a identificare l’ex docente di Filosofia del linguaggio, il direttore del Grande Dizionario Italiano dell’Uso, con uno studioso appassionato solo di educazione scolastica e di lingua comune (notissima la sua decrittazione della bolletta Enel), immerso esclusivamente in ricerche lessicali e filologie varie.
Al contrario, De Mauro è sempre stato uomo di penna e di spada, attivo nella vita pubblica fin dagli Anni Cinquanta quando militava nell’Unione Goliardica e scazzottava sul piazzale della Minerva della Sapienza di Roma («un epico pomeriggio - ricorda divertito - il mite Guido Calogero, filosofo del dialogo, urlò ”All’assalto!”. Pioveva e il nostro gruppo composto da una maggioranza di ragazze armate di ombrelli partì alla conquista dell’inespugnabile Facoltà di Legge, sede dei fasci»). Per poi occupare negli Anni Settanta il posto di consigliere regionale del Lazio per il Pci, di assessore alla Cultura e infine di ministro della Pubblica istruzione. La stessa verve lo accompagna da sempre nelle battaglie culturali.
La sua avventura è stata costellata dai «Libri di base» (i famosi volumetti a finalità pedagogica ideati per gli Editori Riuniti) ma anche dai libri «per litigare», dal rapporto conflittuale con testi e autori.
«Con Pier Paolo Pasolini, per esempio, i contrasti furono aspri. Amici comuni mi riferirono che a lui non era piaciuta la mia Storia linguistica dell’Italia unita. A mia volta io ero molto guardingo nei suoi confronti. Era dotato della straordinaria capacità di mettere sempre i piedi nella pozzanghera giusta, sollevando molti schizzi. Una determinazione che ha pagato con la vita. Non mi convinceva però lo stile con cui vi si applicava, troppo intuitivo, spesso poco argomentativo come quello, per esempio, degli Scritti corsari. Un altro grande artista con cui ho avuto molto a che ridire è stato Vittorio Gassman. Durante un seminario in cui definivo le sue rappresentazioni teatrali ”troppo enfatiche” e ne apprezzavo invece i film comici, mi interruppe all’improvviso: ”De Mauro, se continua così prendo questa bottiglia e gliela spacco in testa”. A riportare l’episodio fu la giornalista Gianna Preda sul giornale di destra Il borghese. Per via dei suoi orientamenti politici assai distanti dai miei, andò giù pesante. Per connotarmi meglio scrisse: ”Il prof. De Mauro che, purtroppo, a differenza di suo fratello, non è stato ancora rapito”. Si riferiva alla scomparsa di Mauro, giornalista dell’Ora, sequestrato e ucciso dalla mafia per le sue inchieste».
Insomma i colpi non si risparmiavano.
«Non c’è dubbio. Quando uscì Scrittori e popolo del mio amico Alberto Asor Rosa fui molto contrariato. Lo consideravo un libro violento con prese di posizione sbagliate. Successivamente ho valutato diversamente la questione. Ad avercene oggi di studiosi del calibro di Asor, capaci a 32 anni di cimentarsi in saggi come questo. E poi di dare vita a ricerche come la sua Letteratura italiana. Anche su Andrea Camilleri, per esempio, ho mutato parere nel corso del tempo. Ma qui non si tratta di una questione letteraria. Facevamo molte riunioni insieme su allestimenti e spettacoli teatrali. Lui arrivava vestito da ciclista, con maglietta, berrettino e mollette per i pantaloni. Discutevamo, chiacchieravamo, ma io ignoravo assolutamente le sue doti di scrittore. Una volta, in sua assenza, a casa del filosofo Emilio Garroni, qualcuno lesse ad alta voce un brano del Ladro di merendine. Era la pagina di un bravissimo scrittore, di un genio».
Come nasce questa sua inclinazione alla lettura con l’occhio del polemista?
«Da ragazzino io ero un ”capuzziello”: così a Napoli chiamano un presuntuosetto. Ero uno che ama prendere di petto i professori, sfidarli a colpi di citazioni. Ancor più piccolo leggevo la Biblioteca dei miei ragazzi (Salani) e racconti come Euro, ragazzo aviatore, La teleferica misteriosa, Il Talismano del 23° Stormo, con le avventure di Mardocheo Formiconi, storia di un ragazzino che, sulle orme del padre fascista, se ne andava in Abissinia. Ero catturato dall’eroismo bellico e dalla retorica del periodo. Solo dopo anni ne ho capito l’insulsaggine e la vuotezza. Mi ricordo le adunate a piazza Plebiscito anche se, quando vivevo nel capoluogo campano, non mi adeguavo a riti e miti del regime. Non avevo nemmeno la divisa da balilla. Mi trasferii a Roma con la famiglia e - nonostante i miei due fratelli, Mauro e Franco (morirà nel 1943), fossero arruolati in guerra - fui aspramente redarguito e richiamato agli obblighi della tenuta fascista. Mia madre mi allargò i pantaloncini da figlio della lupa, rimediò una camicia nera e prese un foulard azzurro di mia sorella. Camminando impacciato con questa stretta guaina arrivai a scuola. Suscitai l’ilarità di tutti i compagni e del prof che mi disse: ”De Mauro, sembri una guardia svizzera”. Fu una vera umiliazione. Anche perché mi dispiaceva non avere gli scarponcini e tutto il resto della divisa come gli altri scolari».
I libri che la consolavano?
«Tutti i classici, dai racconti di Thomas Mann a David Copperfield a Don Chisciotte. Che ho riletto più volte negli anni. E poi i libri della Medusa, i romanzi dei russi e degli americani, in particolare John Steinbeck che amavo molto, le poesie di Rainer Maria Rilke nella bellissima traduzione di Giaime Pintor i cui versi condividevo romanticamente con il mio flirt di allora, Bianca Saletti (futura storica dell’arte e moglie di Asor Rosa). La fuoriuscita dal fascismo non è stata semplice, accompagnata com’era dalle vicissitudini famigliari. Mio fratello Mauro aveva optato per la Repubblica di Salò, cominciando a lavorare per l’ufficio stampa della Decima Mas. Alla fine della guerra era stato internato a Coltano, vicino a Pisa, nel campo di concentramento per ex repubblichini. Da cui evase con l’aiuto di mia madre, subendo poi ripetuti processi. Io nel frattempo cominciavo a prendere le distanze dal regime: leggevo la Storia d’Italia di Benedetto Croce e il Risorgimento di Adolfo Omodeo. Divenni successivamente un liberale di sinistra, un ”viso pallido”, come venivano chiamati dagli avversari politici i lettori del Mondo di Mario Pannunzio».
E negli Anni Settanta?
«Prima ancora mi avevano conquistato le opere di Antonio Gramsci, Samuel Beckett, Bertolt Brecht. Non mi sono mai scaldato per la scuola di Francoforte e nemmeno per il Sessantotto - in questo ero vicino a Pasolini - da cui mi sono tenuto sempre lontano».
Un periodo della sua vita in cui non ha aperto un libro?
«Certamente. Quando ero ministro. Compulsavo solo leggi e codicilli, giravo per scuole e la sera, quando rientravo e mi proponevo di leggere qualche pagina, piombavo invece nel sonno».