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 2009  giugno 27 Sabato calendario

LA CITT CHE NON VUOLE CADERE A PEZZI

Quattro milioni di metri quadrati.Per rendere visivamente l’idea si può pensare a 600 campi di calcio messi assieme. l’area industriale di Schio, ma accanto, nel giro di pochi chilometri, ci sono quelle di Thiene, di Marano, di Carrè, di Zanè, di Santorso. Fiore all’occhiello di quella rivoluzione industriale che una quarantina d’anni fa ha cominciato a segnare un percorso nuovo per il dopo Lanerossi. Ci si perde in mezzo a questi spazi, ma hanno cominciato a perdersi anche le aziende. Gli scheletri di tanti capannoni ancora in costruzione non sono più un segnale di dinamismo e lo si capisce dal cemento ingiallito e che comincia a coprirsi di muffe, dai materiali di cantiere abbandonati. Nei "condomini industriali" le serrande abbassate sono sempre di più. Ci sono tratti di questo reticolo di strade dove le erbacce testimoniano l’abbandono, altri dove un irreale silenzio ti avvolge, altri ancora dove a fare da termometro della situazione sono le automobili nei parcheggi interni.
Nessuno arrischia cifre ma se azzardi un 20% di capannoni vuoti ti fanno capire che la stima è ottimistica. Benvenuti nella "subfornitura town", con tutto il suo carico di paure. «Siamo delle piccole barche in balia della tempesta – sintetizza un imprenditore – giorno dopo giorno qualche barchetta affonda ed un pensiero ci accomuna: domani potrei essere io».
Per capire non serve andare troppo indietro nè ricordare la storia del tessile italiano scritta in questa fascia pedemontana del Vicentino da signori che si chiamavano Marzotto e Rossi.
Basta rileggere la rivoluzione industriale degli anni 70 quando quella monocultura fu progressivamente quanto rapidamente sostituita da centinaia di aziende. Veri e propri grappoli, in una variante del classico modello di distretto veneto, che improvvisavano filiere di successo. Due, tre, quattro livelli di subfornitura con una forte vocazione per la meccanica più evoluta. Peccato che le aziende leader fossero, e restano, poche e che i portatori d’acqua si siano invece moltiplicati. Con successo e con intelligenza, va precisato, ma la crisi ha brutalmente interrotto i sogni. Non solo quella a dire il vero. C’è un problema strutturale di fondo che pesa su quest’area ed è il suo isolamento. vero che c’è un’autostrada che arriva ma finisce addosso ad una montagnola di sassi e di sacchi di sale da spargere con il gelo. la A31 della Valdastico ma i più la conoscono come la Pi-RuBi dalle iniziali dei suoi promotori. Piccoli Flaminio, Rumor Mariano e Bisaglia Antonio: nomi di un’altra epoca e forse di un paio di Repubbliche fa. Ma se a casa di Bisaglia, nel Polesine, ci si arriverà fra qualche anno perchè i lavori sono in corso dopo decenni di abbandono, a Trento sembrano avere dimenticato l’eredità di Piccoli. Senza uno sbocco diretto a Nord verso l’Europa forte, e priva pure di un adeguato sistema ferroviario metropolitano veneto fermo da queste parti alla fase di idea, quest’area soffoca ed evidentemente perde competitività.
«Oggi, però – esordisce Annika Buzzacchero, titolare della B&B Metalwork ”quello è forse il problema minore. Il fatto grave è che da un giorno all’altro sono spariti i clienti. Per chi come noi era obbligato a lavorare sulla parola, ad accontentarsi del "non preoccupatevi perchè l’ordine arriva", è una vera tragedia.» Annika ha grinta da vendere ed è decisa a non arrendersi. L’ufficio l’ha ricavato in un angolo della porzione di capannone dove ha sede l’azienda.Accanto alla scrivania c’è un tappetino e una giostrina per suo figlio di pochi mesi che ha già cominciato a condividere la vita di fabbrica. Ha poco più di trent’anni e nel 2003 ha accettato la scommessa di ristrutturare l’aziendina che il padre ed un socio avevano avviato vent’anni prima. «Produciamo componenti su misura e su disegno per macchine industriali di qualsiasi tipo – spiega ”pezzi medio-grandi per lotti anche minimi, a partire da dieci unità. Abbiamo committenti in Spagna, Germania, Francia, negli Usa. Finoa dicembre lavoravamo anche dieci ore al giorno in straordinario. Da gennaio il telefono è muto». «Eravamo in sette – aggiunge – ora siamo in cinque. Non ho potuto rinnovare il contratto ad un preziosissimo collaboratore che avevo formato per cinque anni portandolo ad una altissima qua-lificazione. Un altro dipendente è in cassa integrazione e per adesso stringiamo i denti, ma io guardo già al 2011, non ad un 2010 che di sicuro sarà ancora durissimo».
Annika ammette che solo un paio di mesi fa era sul punto di mollare tutto e chiudere. Un problema di solitudine nel mare in tempesta ma anche di disorientamento. Per reagire è andata a scuola. Alla scuola di politica e di economia della Confartigianato di Vicenza. Due giorni fa ha presentato la sua tesina finale alla commissione di professori universitari e si è definitivamente convinta di avere ancora un futuro da imprenditrice. Mica solo parole, è chiaro, ma un piano strategico ben preciso oltre che solido. «Il problema di noi giovani artigiani – osserva – è che spesso siamo di seconda se non di terza generazione e abbiamo una scarsissima propensione al rischio. L’impresa, invece, è anche rischio, ovviamente calcolato ».
Negli ultimi due anni alla B&B Metalwork hanno raddoppiato lo spazio del capannone e comprato una nuova macchina, adesso dovevano passare alla fase successiva, quella della produzione di idee e della presentazione dei brevetti per consolidarsi autonomamente sul mercato. «Siamo a metà del guado ma non ci sto ad affondare – ribadisce – lavoro per il 2011 cercando mercati nuovi, non mercati geografici ma settori interessanti e con prospettive e soprattutto reti d’impresa con cui collaborare, in Italia ed all’estero. Non voglio certo pensare ad esperienze di delocalizzazione ma sicuramente possono nascere ottime cose da partnership aperte».
Annika dice di non essere spaventata dalle saracinesche abbassate che vede attorno. «Sono tante, è impressionante – ammette – questa crisi non ci appartiene ma sono le banche a fare la differenza, a decidere chi e dove dove cessare l’attività.
Ho visto situazioni assurde. Le banche, soprattutto quelle locali, sanno benissimo come vanno le imprese ed attuano una sorta di regia occulta con la gestione dei crediti. Per mia fortuna ho un rating buono ma il mese scorso sono andata a "prendere per le orecchie" i responsabil dei tre istituti con cui lavoriamo perchè senza troppo dare nell’occhio mi avevano aumentato ogni tipo di commissione. Il problema è che noi piccoli non possiamo guardare a tutto e c’è chi ne approfitta».
Attraversi queste zone industriali rese vivibili da un’architettura in molti casi di alto livello, da ampi spazi verdi, da centri commerciali e locali piazzati ad interrompere la lunga teoria di capannoni e ti imbatti nelle villette simbolo di un benessere conquistato e che nessuno vuole perdere. Case a schiera con un fazzoletto di guardino arricchito da piante esotiche, uno stile che spesso dimentica il classico veneto per lasciare spazio al patio di ispirazione spagnola o a scopiazzature da serie televisive. Due campi coltivati, un boschetto ed un’altra serie di fabbriche. A Carrè c’è la Elledi di Santina Chiumento, altra donna, altra piccola impresa metalmeccanica. Anche qui in condominio, un angolo di un vasto complesso industriale. Producono stampi. Lavoravano molto per l’automotive con una specializzazione nei sedili. La crisi dell’auto li ha messi in difficoltà. Si sono riposizionati sulle fonderie, fatturato discreto nel 2008, pari a zero o quasi in questo inizio del 2009. «Adesso stiamo guardando al mondo dell’energia – dice l’imprenditrice – lì le cose non vanno male e noi abbiamo una flessibilità che ci consente di cambiare in maniera rapida la tipologia di produzione. Bisogna però continuare ad investire e noi abbiamo dato ormai il massimo. Abbiamo già pagato tutte le nostre tasse personali su un utile presunto perchè in realtà lo abbiamo messo tutto nella fabbrica. Abbiamo riscattato il capannone dal leasing, abbiamo quattro macchine nuove già di proprietà ma siamo soffocati da un lato dal mercato e dall’altro dalla mancanza di una qualsiasi attenzione alla nostra attività».
 un leit motiv fra gli imprenditori in quest’area.Tutti rivendicano un ruolo fondamentale nell’economia di un Paese che invece sembra guardare da un’altra parte, dimentica i piccoli e si preoccupa solo dei grandi e delle banche. Nessuno si accorge – dicono – se chiudono cento aziende con dieci dipendenti ciascuna, ma se una grande impresa annuncia la mobilità per mille persone subito scattano aiuti e solidarietà. una brutta guerra fra poveri che fa arrabbiare anche Antonella Parise che poco lontano, a Marostica, gestisce con la famiglia un’azienda che fa componenti metalliche per l’arredamento. «Mi fa piacere che detassino gli utili reinvestiti in azienda – afferma – ma prima gli utili bisogna farli e di questi tempi non è facile». Alla Parise le cose non vanno male, il lavoro c’è perchè l’azienda è stata riposizionata nella nicchia del "su misura" che ancora sta realizzando commesse, «ma – chiarisce – non abbiamo prospettive per il futuro. Quanto potrà durare questa situazione? In mancanza di sicurezze e di indicazioni di mercato come facciamo ad investire?». Il prodotto che fanno è di gamma alta, ha costi elevati e va ad un mercato ovviamente ristretto, anche geograficamente. E qui sorge un altro problema, ampiamente condiviso. Quanto durerà il benessere trovato?
Le villette, alla fine, hanno anche un costo di manutenzione e, a giudicare dal numero di agenzie di viaggio e di sun center che si trovano in questo articolato paesaggio, le abitudini di vita non sono tra le più spartane. Nessuno è in grado di profetizzare quale futuro avranno gli scheletri di capannone. Su qualche muro compaiono scritte come "lavoro agli italiani" che suonano quantomeno anacronistiche perchè se la rivoluzione avviata ha un merito sicuro è quello di avere favorito una integrazione non certo di facciata.
«Non possiamo mollare perchè qui ”spiega Santina Chiumento – non solo c’è tutta la nostra vita ma c’è anche quella dei ragazzi che lavorano con noi. Per questo da sempre io punto sulla formazione. Bisogna che ci mettano in condizione di poterla fare praticamente a ciclo continuo per seguire la flessibilità obbligata della produzione. La formazione ha un costo, e noi lo sappiamo bene, ma è proprio in questo che abbiamo bisogno d’aiuto. in questa direzione che bisogna guardare difendendo il patrimonio che abbiamo e specializzandolo sempre di più». Dalla tempesta che sta mettendo a dura prova una bella intuizione ed un virtuosa realizzazione non arrivano voci disperate. Chi si è arreso sceglie il silenzio. Tutti gli altri sono determinati ma soprattutto non chiedono la luna. Vorrebbero poche cose concrete, quelle di uno «Stato buono» non di uno «Stato assistenzialista », per sentirsi meno soli.