Carlo Ferri, La stampa 24/06/2009, 24 giugno 2009
CI SONO TANTI ALTRI PIANETI BLU, VI RACCONTO COME LI TROVEREMO
Trovare ET. Il momento si avvicina. Ci pensano gli astrobiologi, gli studiosi della disciplina che, secondo la definizione elaborata dalla Nasa, è «dèdita allo studio dell’origine, dell’evoluzione, della distribuzione e del futuro della vita nell’Universo.
L’appuntamento è per il prossimo settembre a Barcellona. Qui è in programma un meeting di «cervelloni», intitolato «Pathways towards habitable planets» (strade verso pianeti abitabili), il cui obiettivo - spiega Ignasi Ribas del Csic (l’equivalente del Cnr in Italia) - «è quello di riunire le sinergie di una comunità sempre più in espansione per definire una serie di nuove missioni spaziali, che siano dedicate allo studio delle atmosfere dei pianeti extrasolari di tipo terrestre e, quindi, in grado di albergare la vita. Una condizione essenziale - aggiunge - è che abbiano acqua liquida sulla superficie».
In effetti, dopo averne scoperti più di 350 dal ”95 a oggi, l’attenzione si sta spostando dalla rilevazione di nuovi esopianeti alla descrizione degli habitat, un compito che i telescopi spaziali in orbita - «Corot» e «Kepler» - non sono in grado di assolvere. Le strategie devono perciò essere riviste: è il punto su cui gli esperti sono d’accordo e tra questi spicca Giovanna Tinetti, uno dei più famosi «cervelli in fuga» dal Bel Paese. Dopo aver ottenuto un dottorato in Fisica Teorica all’Università di Torino e aver collezionato numerosi riconoscimenti, la più brillante fisica italiana (come stabilisce un premio del 1999) è approdata allo University College di Londra.
Giovanna Tinetti, come si osserva un esopianeta? Alzando un cannocchiale al cielo come fece Galileo 4 secoli fa oppure stando davanti a un computer?
«Dipende da che cosa si vuole studiare. Un telescopio di 25-30 cm può essere sufficiente per rilevare il transito di un esopianeta che eclissa temporaneamente la luce della stella madre. Ma se si vuole studiare l’atmosfera del pianeta e capirne la composizione, è obbligatorio utilizzare telescopi più grandi o compiere le osservazioni dallo spazio. In quest’ultimo caso, senza muoversi dal proprio studio, si aspettano i dati sul computer. Per i grandi osservatori terrestri, invece, è necessario raggiungere l’installazione e fare le osservazioni necessarie, anche se oggi gli strumenti vengono sempre più automatizzati».
L’anno scorso lei ha pubblicato sulla rivista «Nature» un lavoro che ha fatto scalpore: la scoperta del primo esopianeta con presenza di vapore acqueo nell’atmosfera. Che cosa ha significato questo studio?
«Trovare una molecola mai rilevata prima su un esopianeta ha rappresentato un passo importante per la scienza. Inoltre, sebbene le condizioni estreme siano lontane dal poter ospitare esseri viventi sulla sua superficie, la presenza di vapore acqueo è quanto di più vicino alla vita terrestre sia stato mai trovato finora. Infine, il metodo utilizzato per la rilevazione ha riscosso grande successo nella comunità internazionale, aprendo una nuova strada per la ricerca di altri esopianeti».
Il «gemello» della Terra, comunque, non è ancora stato individuato. La sua esistenza implicherebbe necessariamente la presenza di acqua liquida? Insomma, quanto è unico il pianeta Terra?
«Non condivido l’equazione secondo cui trovare una Terra gemella è uguale a trovare il Sacro Graal né tanto meno che questo voglia dire assicurarsi il Nobel. Credo che non sia tanto importante sapere se siamo unici quanto capire se il Sistema Solare è unico: significa capire la statistica dei sistemi planetari simili al nostro nell’intera Via Lattea con l’obiettivo di vedere in prospettiva la nostra situazione rispetto agli altri».
E’ in grado di pronosticare la scoperta di acqua liquida al di là della Terra? Crede che verrà scoperta prima nel Sistema Solare o su un pianeta extrasolare?
«Difficile dirlo: la prova certa del ritrovamento su un esopianeta potrebbe venire solo dalla riflessione della radiazione ottica su una superficie acquosa estesa, per esempio un oceano. Tuttavia la tecnologia non ci permette di essere così precisi e non ci riusciremo prima del 2020-2030. Credo, quindi, che le sonde che esplorano pianeti e lune del Sistema Solare saranno le prime a toccare ”con mano” l’acqua liquida, sempre supponendo che questa sia presente nel nostro sistema».
E poi che cosa succederà?
«Sarà un dato molto interessante, ma non sarà certo l’ultimo passo. Di recente, grazie allo studio delle atmosfere planetarie, è stata scoperta una quantità esorbitante di nuovi oggetti stellari, inimmaginabili prima d’ora. L’acqua liquida, quindi, più che un punto di arrivo sarebbe un nuovo inizio per cercare nuovi mondi e altre meraviglie del cosmo».