Alfonso Berardinelli, La stampa 24/06/2009, 24 giugno 2009
SCRITTORI MIEI MARTIRI IMMAGINARI
La coincidenza è quantomeno curiosa. Nell’almanacco sui «Dieci libri dell’anno», pubblicato da Scheiwiller e curato da Alfonso Berardinelli ci sono ben due titoli che potrebbero vincere lo Strega. Per non parlare di Antonio Moresco, cui sono dedicati due saggi, che si è recentemente affacciato in televisione, al programma di Daria Bignardi, acclamato come «il più importante scrittore italiano» (nelle interviste di L’Era glaciale). Che è successo al critico letterario noto per le sue posizioni spesso da bastian contrario, e sempre piuttosto anticonformiste? Si è convertito al verbo dei media culturali (anche i premi, al fondo, lo sono) e della società letteraria italiana (per quel che ne rimane), o semplicemente questa a cavallo fra il 2008 e il 2009 è un’annata che ha messo d’accordo tutti? «In realtà - confessa Berardinelli - sono abbastanza sorpreso anch’io di certe coincidenze fra scelte di critici e candidature ai premi. Non succede spesso».
Antonio Scurati e Tiziano Scarpa occupano una zona importante del libro, anche se il primo è amorevolmente strapazzato da Andrea Di Consoli, che ne fa a pezzi il personaggio salvando lo scrittore. E’ questo che la sorprende?
«No. Però se fossi Scarpa o Scurati, sarei piuttosto imbarazzato a vincere lo Strega».
Rinnega la sua stessa rassegna?
«Ho scelto gli autori dei saggi - Emanuele Zinato, Enzo Golino, Silvio Perrella, Giuseppe Leonelli, Andrea Amerio, Carla Benedetti, Michele Sisto, Andrea Di Consolo, Filippo La Porta, Angela Borghesi - ma non i libri. Ognuno ha scritto e detto quel che gli pareva su chi gli pareva. Ho pensato che fosse anche un buon sistema per vedere che cosa valorizzano i nuovi critici italiani. E’ anche un’inchiesta sulla critica».
Conclusione?
«Vedo che i critici quest’anno tendono a orientarsi su ciò che attira anche l’attenzione dei premi. Scarpa e Scurati sono scrittori che ce la mettono tutta, questo non si può negare. Non sono libri da ombrellone, e in particolare Scarpa mi sembrava un autore non candidabile precedentemente allo Strega tradizionale. Credo che le polemiche intorno al premio siano state un campanello d’allarme, e l’attenzione si è spostata su libri non convenzionali».
Ma allora va tutto bene. Si sta riconciliando con i premi?
«Al premio Strega non credo, troppi votanti, c’è qualcosa che non va. Vent’anni fa ricevetti la tessera di giurato e istintivamente la buttai via».
Si spieghi.
«La mia generazione è entrata nella letteratura pensando che questo voleva dire mettersi nei guai e non vincere premi. Gli scrittori più giovani, anche quelli più oltraggiosi e bellicosi, considerano il mercato come naturale orizzonte dell’attività letteraria. Oggi si vive la letteratura, soprattutto il romanzo, anche di rottura, senza nessun pregiudizio contro il successo di pubblico, cercato con ogni mezzo. Vale anche per Antonio Moresco, le cui Lettere a nessuno pubblicai io stesso, la prima volta, per Bollati Boringhieri. Tuttora si lamenta di non avere successo, viene esaltato da Carla Benedetti perché autore sabotato, come una forza che se liberata trasformerebbe il mondo. Ora che i Canti del caos sono pubblicati vediamo se il genere umano ne verrà rigenerato. Però mi sembra che non reggano il confronto con libri come Al di sotto della mischia di Bellocchio, Le cose come sono di Giancarlo Gaeta o, per esempio, Il contagio di Walter Siti».
Scrittori miei, martiri immaginari?
«Forse. Scrivono per essere sgradevoli, aggredire e scandalizzare il lettore. Ma si scandalizzano se qualcuno li rifiuta. Avvertono evidentemente che non c’è futuro, si tratta di riscuotere subito».
Essere ben accolti parlando male del padrone di casa?
«Forse è una lontana conseguenza del ”68. Oggi i rapporti dei giovani con l’editoria sono molto più facili, i nuovi scrittori danno spesso l’impressione di sputare nel piatto per poi mangiare in un altro. Nel suo saggio su Scurati, Di Consoli affronta questo aspetto, arrivando a dire che ciò che nuoce all’autore è proprio la sovraesposizione mediatica».
Scusi, ma li vuole tutti poveri ed emarginati, senza uno straccio di lettore?
«Non è questo. Trovo strano che si voglia andare in televisione per parlarne male. Lo stesso vale per i premi».
E anche per il mercato?
«Il cerchio si è chiuso con Saviano, lo scrittore di denuncia che è un vero martire ma anche un divo. Saviano vive una situazione terribile. Però l’idea che attraverso la letteratura si possa diventare star mediatiche si è molto diffusa. In America Philiph Roth non pretende di essere Grisham».
Dunque è vero che ce l’ha con gli italiani.
«Un po’ sì, sono i miei vicini di casa, la mia scomoda famiglia. Solo non penso che in letteratura si debba programmare qualcosa: né il successo, né l’insuccesso. Trasformare la tragedia dell’insuccesso in un trionfo è altrettanto comico quanto una letteratura a pronta cassa, che si dispera se non viene applaudita nei tempi previsti».