trad. da David Carr, New York Times, 11 gennaio 2009, 11 gennaio 2009
Inventiamo un iTunes dell’informazione - Martedì scorso iTunes, il sito internet di Apple che vende musica online in formato mp3 e che nel solo 2008 ha visto scaricare legalmente 2,4 miliardi di canzoni, ha cambiato le sue strategie: le canzoni non saranno più vendute con il sistema del DRM (Digital rights management, impedisce che il file possa ascoltarsi su altri dispositivi) e saranno disponibili con prezzi diversi (ad oggi l’unico prezzo disponibile è 99 centesimi)
Inventiamo un iTunes dell’informazione - Martedì scorso iTunes, il sito internet di Apple che vende musica online in formato mp3 e che nel solo 2008 ha visto scaricare legalmente 2,4 miliardi di canzoni, ha cambiato le sue strategie: le canzoni non saranno più vendute con il sistema del DRM (Digital rights management, impedisce che il file possa ascoltarsi su altri dispositivi) e saranno disponibili con prezzi diversi (ad oggi l’unico prezzo disponibile è 99 centesimi). Il popolo della rete ha esultato per la fine dell’odiato DRM, che comunque non soddisfaceva neanche Apple, imposto com’era dalle etichette discografiche. Che hanno già cominciato a riscaldare i muscoli, al pensiero della possibilità di lasciarsi alle spalle la tirannia del tetto del 99% (imposto dalla casa di Cupertino). Ma il fatto stesso che Steve Jobs e la Apple siano riusciti a chiedere soldi per il contenuto è stata una rivoluzione. Ricordiamo che quando fu introdotto iTunes, l’industria musicale era falcidiata dal file sharing. Progettando un’interfaccia facile per qualsiasi utente, e ottenendo la cooperazione del gotha dell’industria musicale, Steve Jobs ha praticamente inventato un business. Del resto, è anche stato accusato di aver calpestato l’industria musicale, una realtà una volta molto più espansa. Ma le etichette che sono ancora in vita, sono ancora competitive sul mercato. Quelli che come noi si trovano nel business dei quotidiani non possono essere biasimati, se sperano che arrivi qualcuno come lui a rovinare il nostro business con lo stesso trucchetto: convincere i milioni di utenti che ogni giorno ottengono le notizie gratis dai siti dei giornali che è arrivato il momento di pagarle. Per un lungo periodo i giornali hanno ritenuto che mentre il mercato della pubblicità su stampa era in declino, ci sarebbe stata una pletora di richieste di pubblicità online. E così è stato. Ma i ricavi non stanno più crescendo come prima, e il break-even sembra vicino. Come mostrato l’anno scorso da un report di Craig Moffett della Bernstein Research, «L’idea stessa che gli enormi costi del raccoglimento di notizie in tempo reale potessero essere supportati da qualche banner pubblicitario posto a inizio o a fine pagina, o dai ricavi che porta avere un box di ricerca Google in un angolo della pagina, o anche da un teaser pubblicitario di 15 secondi prima di un nuovo clip su youtube, è un’idea completamente idiota». Con i giornali cartacei che entrano in bancarotta (anche se il pubblico dei lettori aumenta), la minaccia è rivolta non solo verso le compagnie che li posseggono, ma anche verso le notizie stesse. Michael Hirschorn sul numero di gennaio-febbraio della rivista ”Atlantic” ha scritto profezie inquietanti in cui predice la fine del New York Times, per poi aggiungere che a suo parere non è così grave che i weets, i blog e gli aggregatori di notizie possano riempire il gap nel riportare i terribili eventi ocorsi a Mumbai o a New Orleans. Il signor Hirschorn è un uomo intelligente - ho lavorato per lui ad un sito web - e mentre non c’è niente di sacro e intoccabile riguardo al New York Times, sicuramente il cuore del giornalismo, fatto di sudore ed esperienza, è costoso, e non può essere sostituito da un’avanguardia di scrittori online non retribuiti. Questi non perchè il giornalismo sia una professione difficile, ma perchè richiede un tempo enorme, e la voglia di rimanere con la storia fino alla fine. «’Gratis” non è un modello di business», come ha detto Mr. Moffett della Bernstein Research. «Suonava bene, così tutti si sono eccitati, ma quando poi ti guardi in giro è chiaro che sta creando scompiglio e non funzionerà nel lungo periodo». SI può imparare da alcune pubblicazioni a stampa che hanno guardato direttamente al lettore per aiutarsi a sostenere il costo di produzione. ”Cook’s Illustrated” è una pregevole rivista con un look rètro che ha un approccio moderno al cibo. E il suo approccio alla pubblicazione (a stampa e online)? ”Cook’s Illustrated” non ha pubblicità, e tassa per l’accesso al database delle ricette. Aldilà dei 900.000 abbonati, a cui vanno aggiunti 100.000 compartori in edicola o poco meno, la compagnia ha 260.000 abbonati digitali, per un costo di 35$ all’anno, e questo gruppo è cresciuto del 30% nel 2008. A me arriva in ufficio, e non ho accesso al profondo archivio digitale di ricette, ma ho pensato a quanto comodo sarebbe da avere in cucina. Similarmente, sono abbonato a ”Consumer Reports”, perche ha dei contenuti di valore che non posso trovare da nessuna altra parte. Entrambe le riviste hanno cominciato un trend, se vogliamo, dal momento che non hanno pubblicità, e si sono rivolti direttamente ai lettori per pagare la produzione e gli investimenti di cui un giornale ha bisogno. Ma sono anche abbonato al Wall Street Journal, uno dei pochi siti di notizie a pagamento, in America. Potrei imbastirne una versione gratuita molto facilmente: si può sorpassare il firewall del WSJ se si va su Google News e se sai esattamnte cosa cerchi (autore, titolo), ma ho scelto di pagare. Per me, pagare per contenuti informativi online non è differente dal pagare per avere l’account DropSend, grazie al quale posso mandare e ricevere grandi files: l’opzione di pagamento bilancia il tempo e la noia da sopportare per usare gli account gratuiti. C’è un modo per ribaltare la cedenza comune che l’informazione, inclusa quella prodotta da professionisti, dovrebbe essere gratuita? Se la stampa vuole spremere cash dagli internauti, deve considerare cos’è successo all’industria musicale, in cui le persone una volta pagavano per i dischi, poi per le cassette, i CD, fino a quando la gente non ha cominciato a ritenere che il prodotto dovesse essere gratuito. Mr. Steve Jobs ha visto la musica come qualcos’altro: una specie di software ancillare, utile a vendere iPods e iPhones. Non era una prospettiva che allettava quelli del music-business, ma ha certamente persuaso gli utenti a pagare per le canzoni. Ed il futuro è già qui: oltre a Kindle, in America già si parla del lancio a breve di un prodotto che dovrebbe essere una specie di iPod Touch, con uno schermo grande fra i 7 e i 9 pollici, che permette di sfogliare le pagine con un leggero movimento delle dita, come un giornale vero. Perfetto. Adesso tutto ciò di cui abbiamo bisogno è un modello di business appropriato.