Aurelio Ascoli, La stampa 24/06/2009, 24 giugno 2009
NUCLEARE SICURO IN SALSA FRANCESE
L’Italia fu tra i primi Paesi a dotarsi di impianti per la produzione di energia elettrica da fonte nucleare: all’inizio del 1987 quattro centrali erano in funzione ed una in via di realizzazione, equipaggiate con reattori a fissione ad uranio arricchito, moderati e raffreddati ad acqua naturale in pressione o bollente, e uno moderato a grafite e raffreddato a gas. La diversificazione intendeva sperimentare i vari tipi di reattore. L’Italia andava anche fiera di un proprio progetto nazionale di reattore a fissione, ad uranio naturale e moderato ad acqua pesante, raffreddato ad acqua naturale in regime di cambiamento di fase (CIRENE, o CIse REattore a NEbbia), con un prototipo da 40 MW e un progetto «di riferimento» da 500 MW.
Gli incalzanti progressi della giovane tecnologia incoraggiavano a non soffermarsi su un paio di problemi risolti in modo non del tutto soddisfacente: la sicurezza di funzionamento e la sorte delle scorie radioattive. Risolti tanti problemi di fisica e ingegneria del reattore, ci si aspettava che la ricerca avrebbe additato la soluzione anche di questi due problemi. L’incidente di Cernobyl indusse una rimeditazione. In Italia, il referendum del 1987 fermò i programmi. Altrove ci fu un rallentamento: chi aveva già investito molto sul nucleare (Francia) continuò i programmi già approvati, altri, come gli Usa, smisero di ordinare nuovi impianti.
L’aumento della produzione industriale fece però emergere i limiti della produzione di energia da fonti fossili (carbone, petrolio, gas naturale). Non tanto l’esaurimento delle scorte, delle quali si continuarono a trovare più giacimenti di quanti andassero ad esaurimento, quanto la concentrazione in alcune zone del Pianeta di quelli sfruttati, che offre ai produttori il privilegio dell’oligopolio; e la produzione di gas serra, con conseguente timore di riscaldamento del Pianeta. Forte è la discussione su questo punto: non è provato che il riscaldamento in corso sia continuo e non faccia piuttosto parte di un’oscillazione secolare o millenaria, di origine non antropica, ma legata a cause naturali. Ma nel dubbio è comprensibile il desiderio di limitare almeno i contributi antropici alla produzione di gas serra, dalla quale la fonte nucleare è esente. Perciò Bush aveva annunciato una ripresa degli investimenti nucleari, quasi fermi nel suo Paese da decenni, e il premier Berlusconi e il ministro Scajola hanno annunciato l’analoga ripresa da noi. L’investimento nucleare è di lenta realizzazione: per una centrale occorrono circa cinque anni di progetto ed altrettanti di costruzione. Perciò l’annuncio fatto da Bush avrà effetto solo se sarà condiviso dal successore.
Occorre inoltre distinguere tra diverse politiche di investimento. I Paesi di nuova industrializzazione (Cina e India), per alimentare ritmi di crescita del pil a due cifre, hanno una fame di energia saziabile solo mettendo in opera tutte le risorse: nucleari, idroelettriche e termoelettriche a combustibili fossili, incluso il carbone. Accettano i rischi relativi a tutti i tipi di centrali, differenziandoli per ripartire il rischio. Questo limita l’efficacia degli sforzi dei Paesi industrializzati di convergere sul nucleare per limitare i rischi del fossile.
La Francia, che già negli Anni 80 aveva raggiunto un cospicuo pianerottolo di investimenti nucleari (58 reattori in funzione) riprende ora, dopo 20 anni, con l’installazione a Flamanville, entro il 2012, di un EPR (European Pressurized Reactor) di «terza generazione avanzata», e i progetti italiani si orientano verso lo stesso EPR, fusione di precedenti progetti tedesco e francese. Secondo Guido Possa, progettista, la decisione sul rilancio del nucleare non può essere solo economica, ma deve essere soprattutto politica. Osserva che gli Usa, dove la decisione è stata presa su basi economiche, non hanno un valido programma nucleare, mentre la Francia, la cui decisione è stata politica, ce l’ha.
L’EPR è un reattore ad uranio arricchito, moderato e raffreddato ad acqua naturale in pressione, evoluzione dell’americano PWR (Pressurized Water Reactor), appunto di «terza generazione». L’aggettivo «avanzata» si riferisce al miglioramento della sicurezza di funzionamento e di contenimento delle eventuali fughe radioattive, affidato ad una doppia campana di calcestruzzo, con intercapedine e un sottostante crogiuolo per raccogliere un’improbabile fusione del nocciolo.
Dice Carlo Lombardi, già ordinario di Impianti Nucleari al Politecnico di Milano: «Possiamo indicare due stadi di sviluppo, relativi a reattori "evolutivi" (INTD - Near Term Deployment Reactors) e "innovativi" (quarta generazione). Gli INTD puntano a modificare prestazioni e sicurezza delle tecnologie esistenti, ma non prevedono veri salti tecnologici. I reattori di quarta generazione, invece, si basano su concetti realmente innovativi, che dovrebbero soddisfare tutti i desiderata: sicurezza totale, economicità, massima efficienza del combustibile e garanzia di non proliferazione militare.
La differenza tra i progetti INTD e quelli di quarta generazione è che i primi offrono la certezza di risultati concreti. Richiedono ovviamente verifiche sperimentali - soprattutto sul fatto che siano competitivi - ma dal punto di vista tecnologico non ci sono dubbi che funzionino. Con i reattori di quarta generazione, invece, è un po’ un salto nel buio. A livello internazionale sono stati individuati 6 reattori meritevoli di appartenere a questa categoria, ma non sappiamo se potranno realizzare le caratteristiche ipotizzate. E Alessandro Clerici, del World Energy Council, ammonisce che questi reattori non saranno commerciali prima del 2040. Il rilancio attuale sarebbe dunque ancora con reattori di terza generazione «avanzata».