24 giugno 2009
L’ECONOMIST? MANGIA LA MELA
«Un buon giornale, credo, è una nazione che si parla». Con questa citazione di Arthur Miller, nell’agosto del 2006, il settimanale britannico The Economist apriva la sua storia di copertina intitolata «Chi ha ucciso il giornale?», nella quale analizzava i problemi strutturali dell’industria dell’informazione su carta nell’epoca di internet. Il settimanale britannico arrivava a dire che la nazione avrebbe probabilmente trovato il modo di continuare a parlarsi, ma con un insieme di mezzi diversi.Anche perché l’assassino del giornale era ancora a piede libero.
Eppure, da allora, l’Economist non ha fatto che guadagnare lettori e pubblicità, crescendo in fatturato e utili, mentre il resto dell’industria della carta stampata andava in tutt’altra direzione. Perché?
Evidentemente internet non è la macchina che distrugge tutti i giornali. E Google non è l’unica azienda dalla quale trarre ispirazione. Ironico e vagamente élitario, concentrato su un progetto culturale sintetizzato dal suo marchio e non sulle firme dei suoi autori, chiuso nel suo orientamento interpretativo chiaro ma non certo partecipativo, l’Economist sembra più simile alla Apple che a Google.
Lo apprezza persino un osservatore caustico con le testate cartacee come Jeff Jarvis, superblogger e docente di giornalismo online alla City University di New York, autore del fortunato e webcentrico libro What Would Google Do?, convinto che le edizioni su carta non abbiano molto futuro. «Ma la qualità vende ancora» sostiene Jarvis. E anche in un mondo dominato dalla velocissima ascesa di Google e di quello che rappresenta, «l’Economist, come la Apple, sono eccezioni che confermano la regola». E sono eccezioni perché il loro valore è unico, non si copia facilmente. Anche se non è difficile spiegarlo: «l’Economist e la Apple fanno semplicemente un ottimo lavoro».
Per chi ama misurare il successo con i bilanci, in effetti, i dati parlano chiaro. Da quel 2006, il fatturato dell’Economist Group è aumentato del 43,5%, a 364,7 milioni di euro, e l’utile operativo è cresciuto del 100%, a 65 milioni di euro. Anche nell’ultimo anno,al31 marzo 2009,il fatturato è cresciuto del 17% e l’utile del 26 per cento. Un successo che non si spiega, come suggerisce il Guardian, solo con i tagli al personale: 130 persone in meno hanno portato il totale a 1.100. E che deriva in parte dal fatto che la crisi pubblicitaria è mitigata all’Economist dalla sua leadership negli annunci delle istituzioni che cercano professionisti iperqualificati.
Intanto, il settimanale di carta, con la sua forte identità, non solo resiste ma aumenta la diffusione: +6,4% l’anno scorso.
Certo, i risultati registrati non mettono l’editore britannico al riparo da rischi futuri, come ammette Chris Stibbs, direttore finanziario del gruppo. Sicché anche l’Economist si interroga. Per esempio, su cosa fare del suo sito: che non è particolarmente ricco, ha varie sezioni a pagamento e ha soprattutto il pregio della semplicità d’uso. Segue con ordine le tendenze prevalenti tra le pubblicazioni online e non si fa mancare i blog e i video. Ma non fa scuola in nessuna materia tra quelle che si studiano nei corsi di editoria online. Salvo per il suo marketing.
Dan Ariely, del MediaLab al Mit, ne ha fatto un caso di studio: quando l’Economist ha proposto tre forme d’abbonamento alternativo, una solo per il cartaceo, una solo per l’online e una per online e cartaceo, ha anche stabilito che il prezzo della seconda e della terza sarebbe stato uguale, ma superiore a quello per il solo cartaceo. Un’offerta assurda, ma che per Ariely, autore del libro Prevedibilmente irrazionale, sulle bizzarrie delle scelte dei consumatori,è riuscita nell’intento di lanciare gli abbonamenti online. E aiutare la diffusione anche della versione cartacea a livello globale.