Nello Ajello, la Repubblica 23/06/2009, 23 giugno 2009
GLI ULTIMI ERETICI
I 40 anni contro del Manifesto
Nel 1969 un gruppo di esponenti del Pci fonda una rivista: sono Pintor, Rossanda, Magri, Parlato e altri intellettuali Nasce così un giornale fiero di essere minoranza critica
Contro la radiazione votarono Mussi, Lombardo Radice e Luporini
Dopo una liturgia macchinosa il partito comunista decise di sopprimere la pubblicazione
Ventitré giugno 1969, quarant´anni fa. Un gruppo di esponenti del Pci fonda a Roma una rivista mensile, il manifesto, che subito appare un caso esemplare di eresia politica. Stampata a Bari dalla casa editrice Dedalo e diretta da Lucio Magri e Rossana Rossanda, la rivista è promossa anche da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara e da altri intellettuali comunisti: Luciana Castellina, Valentino Parlato, Eliseo Milani, Lisetta Foa, Luca Trevisani. I promotori sono identificabili come una «nuova sinistra», vicina ad Ingrao. Così, almeno, è apparso fino all´XI congresso del Pci (1966). Tre anni più tardi, in quel XII congresso che elevò Enrico Berlinguer alla vicesegreteria con Luigi Longo, il gruppo ha ribadito la propria natura di minoranza critica. E´ stato proprio Berlinguer a far eleggerne nel Comitato centrale Rossanda, Natoli e Pintor. In nome di quella «discussione libera, e improntata a spirito di tolleranza» (così si è espresso) che sta prevalendo nel partito.
La prima idea di dar vita al periodico - in partenza Magri vorrebbe chiamarlo Il Principe - risale all´estate del ”68. Un simpatizzante, Lucio Colletti, vi ravvisa la speranza che si apra «anche nel Pci il periodo della lotta politica palese». L´esordio è duro. Natoli parlerà di «mesi di angoscia». E così li ricorderà Massimo Caprara: «Dell´esperienza del manifesto», si legge nel suo volume Ritratti in rosso (Rubbettino, 1989), «mi rimarrà il nitore pacato e costruttivo di certe discussioni dell´estate del ”68, nel cuore del movimento studentesco». Ed ecco effigiati, sotto la sua penna, i responsabili dell´avventura: «Rossanda lucidamente egemone, Pintor imprevedibile, ferratissimo Magri, Natoli rigoroso».
Ma che cosa c´è scritto nella rivista-scandalo? Vi si boccia l´idea di far svolgere a Mosca una conferenza dei partiti comunisti. Un devoto rilievo si riserva alla «rivoluzione culturale» cinese. Si biasimano certi anticipi di «compromesso» fra il Pci e la Dc. In tutto questo Rinascita coglierà «un primo passo verso un´azione di gruppo o di corrente, verso un´attività, lo si voglia o no, di tipo frazionistico». L´attacco porta la firma di Paolo Bufalini, un dirigente comunista di solito cauto e culturalmente sottile. Ma i tempi sono così: all´attenuarsi dell´obbedienza all´Urss non corrisponde una reale tolleranza nel dibattito interno.
Farà scalpore, nel numero 3 del manifesto, un titolo: Praga è sola. Si tesse un elogio della primavera di Dubcek, repressa da Mosca. Nel numero 4 appare una lettera che invano Pintor aveva inviato all´Unità: l´autore polemizza con Giorgio Amendola che ha sostenuto la necessità per i comunisti di entrare presto nel governo. Una fretta che ai protestatari della «nuova sinistra» appare impudica.
Era difficile valutare, all´epoca, quale reale pericolo per il Pci si racchiudesse nelle pagine del manifesto. Emergeva tuttavia un aspetto tutt´altro che formale della vicenda: il ripetersi, per l´occasione, d´un rituale trito e malinconico, alquanto odoroso di Curia. Il primo atto del cerimoniale era stato la convocazione, di fronte alla gerarchia di partito, degli eretici (una pratica che i funzionari pontifici chiamavano «la sacra udienza») per convincerli a ritrattare: di fatto, a Rossanda e Magri questo monito, risultato vano, era stato rivolto in extremis dai membri della direzione comunista. Sarebbe seguita su Rinascita - l´abbiamo visto - la «pubblica confutazione delle tesi». A fine ottobre apparve poi sull´Unità una notizia in cui si informava che «il compagno Alessandro Natta» si sarebbe assunto il compito di «procedere a un esame approfondito della questione relativa al manifesto». Natta era il presidente della Quinta commissione, una sorta di Congregazione del Sant´Uffizio in chiave laica. Si prevede che l´atto conclusivo del rituale sia l´emissione di una bolla in nome della «Chiesa docente».
La liturgia è macchinosa. La Commissione Natta termina i suoi facondi lavori deliberando la soppressione della rivista. Ma la decisione va discussa in Comitato Centrale. Lì, Enrico Berlinguer afferma: «Non basta riconoscere e garantire la legittimità del dissenso, resta il problema dei modi della sua espressione efficace». Le posizioni del manifesto vengono difese con dignità da Rossanda.
Il Comitato centrale, di nuovo convocato per il 25 e il 26 novembre, deliberò la «radiazione» dal Pci della stessa Rossanda, di Pintor e Natoli. La decisione era passata con i voti contrari, oltre che degli interessati, di Lucio Lombardo Radice, Cesare Luporini e Fabio Mussi; astenuti Giuseppe Chiarante, Sergio Garavini e Nicola Badaloni. Poco più tardi, un analogo «provvedimento amministrativo» venne adottato per Magri. Caprara vide cancellato il suo nome dal novero degli iscritti alla federazione di Napoli. Qualcosa di simile toccò a Parlato e Castellina.
In dicembre la Pravda vide in queste decisioni del Pci «la più ampia garanzia del consolidamento del partito e della difesa del centralismo democratico». Di fatto, una minaccia, proveniente da Mosca, riguardava un´azione di «frazionismo» da promuovere nel Pci, se si fosse mostrato troppo arrendevole, al suo interno, verso i «devianti». Qualcuno accennava al progetto di far nascere, in Italia, una rivista rigidamente filosovietica. Se ne indicavano sia il titolo, L´appello di Lenin, che gli ispiratori, Edoardo D´Onofrio e Ambrogio Donini.
Quando, nei primi mesi del 1971, il manifesto stava per trasformarsi in quotidiano, Luigi Pintor confidò, ad Umberto Eco ed a me che con lui ne discutevamo per L´Espresso, di guardare a un precedente da lui giudicato illustre, «l´esperienza dell´Unità dell´immediato dopoguerra», la quale s´era giovata di «un afflusso di giovani quadri venuti dalla Resistenza. Essi inventarono il giornale, impararono a farlo e lo fecero bene».
Valutare che cosa resti in piedi oggi della complessiva avventura del manifesto-giornale implicherebbe un discorso a parte. Si può soltanto ricordare che il foglio, uscito nell´aprile di trentott´anni fa, è l´unico superstite fra le testate quotidiane create dall´ultrasinistra in quei tempi difficili. « solo un giornale», qui è ancora Pintor che parla. «Ma per noi è molto di più. Entrarci non è una scelta di mestiere ma un arruolamento volontario». La qualifica di eretico, che il partito aveva assegnata a lui e al suo gruppo, egli la rivendicava come un emblema morale.