Andrea Galli, Corriere della Sera 22/06/2009, 22 giugno 2009
L’VIV
(Ucraina) – Tra zie, cognate e nipoti se ne sono andate in quindici. Tutta la colonna femminile di una famiglia. Quella dei Busko, che in ucraino vuol dire cicogna. A casa dei Kinashchuk, i vicini, son rimaste le piccole donne, cugine: le sorelle Maria e Cristina, di 13 e 15 anni; e un’altra coppia di sorelle, Anastasia e Sofia, di 12 e 13 anni, che allevano i fratellini Pavlov e Zacaria. I genitori vanno e vengono per l’Italia. I bambini crescono con al fianco una vecchietta del posto, che fa da mangiare e fa un po’ di tutto: insomma, si potrebbe dire, fa da badante. La vecchietta è pagata cinque euro al giorno dalla nonna dei bambini, Maria Kinashchuk, di 60 anni, che a Rimini assiste Flora, di 18 anni più grande, per novecento euro al mese. Questa Flora, anziana malata e bisognosa d’una persona al fianco che la pulisca, sorvegli e ascolti, irrompe al telefono con domande da innamorata gelosa e delusa: «Ma quando torni? ». Maria tornerà dopo l’estate. «Devo fermarmi qualche mese», dice con venature di romagnolo nell’accento, «per vedere come vanno i ragazzi, che crescono soli». Non sono i soli: in Italia lavorano oltre centomila donne ucraine che qui hanno lasciato tra i due e i trecentomila figli.
Siamo a Pristan, villaggio di trecento famiglie e di 103 bambini, e di oche, anatre e cavalli veri padroni del traffico sulle strade sterrate. La regione è quella di L’viv, nell’Ovest dell’Ucraina, la parte più anti-russa della nazione. Prima del regime dei sovietici ci furono i tedeschi, che rubarono di tutto, anche la terra, una terra ricchissima di miniere di carbone dove si scava fino a seicento metri con un ascensore che scende (precipita?) a dieci metri al secondo facendo fischiare, anzi urlare, le orecchie.
Nonna Maria se ne andò da questi posti undici anni fa. Era maestra, rimase vedova. Prima di partire imparò, da una concittadina emigrata e rimpatriata, «cinquecento parole in italiano». Per lo più erano aggettivi: onesta, lavoratrice, generosa, e via apprendendo. Con quel vocabolario in mano, girò a cercar lavoro. Lo trovò al nono giorno. Maria, dolcissima, presenta i nipoti uno a uno. La maggiore, Cristina, tiene in mano un cellulare, lo fissa, aspetta che suoni; lo mette in tasca, lo estrae e controlla casomai abbia perso una telefonata. Dopo dieci minuti, la chiama la mamma. Dice di aver appena spedito uno scatolone con pasta, tonno e salmone che in Ucraina sono di qualità scadente. Per i prodotti migliori, si deve ricorrere al contrabbando. Più che dei traffici sporchi, a L’viv, colta e ospitale città di quaranta chiese e un milione di abitanti, a 60 chilometri da Pristan, sono tuttavia alle prese con altri problemi, come confermano la polizia e il giornalista Omar Uzarashvili. Esperto di criminalità per il quotidiano da trecentomila copie «Vysokyi Zamok », Uzarashvili dice che «ogni giorno, in media, sei minorenni compiono rapine e scippi», e che nei sei «ci sono almeno due figli di una madre emigrata. Privi di custodi e di affetto, finiscono per strada, arruolati dalla criminalità ». L’ultimo l’hanno preso una settimana fa: aveva assaltato una gioielleria. Ci hanno messo poco, ad arrestarlo. La polizia ha avuto in eredità dal Kgb un controllo totale del territorio. Nulla le scappa. Infatti è molto temuta. Alla pari delle carceri, «terribili perché ti regalano brutte malattie».
Nella regione di L’viv ci sono due carceri minorili. In città ci sono un Internat – un orfanotrofio – e un centro di primo intervento che ospita per un massimo di tre mesi bambini rimasti senza genitori. Dopo il centro (qualcuno evade prima nonostante sbarre alle finestre, telecamere nelle stanze e in cortile il cane Berta, Berta come il cannone della prima guerra mondiale), si finisce nell’Internat. La cui direttrice Svetlana Ulianivna, un donnone, attraversa bui corridoi bersagliati da odore di muffa, e conduce in una bella aula tripudio di bandiere tricolori. « la nostra classe di italiano. Insegniamo la vostra lingua. Per chi un giorno partirà. Magari dopo un’adozione». Alcuni bimbi, in particolare la biondina Olga, girano intorno agli ospiti e con gli occhi pregano di portarli via. Qualcuno aveva detto che il loro sguardo sarebbe stato identico a quello dei cani in un canile: aveva ragione. Più difficile incrociare gli occhi dei ragazzini che – è una cartolina diffusa in tutte le grandi città dell’Est Europa – si nascondono nelle fogne o, succede a L’viv, nelle cantine di fabbriche enormi e abbandonate, e vivono sniffando colla da sacchetti di plastica. Se avvicinati, spiega la polizia, reagiscono a sassaiole.
In Italia, due delle comunità ucraine più numerose sono in Veneto e a Milano. Tamara Podznyakova è la leader del gruppo di Mestre. Forte e fuori dal coro (il Governo ucraino tende a non parlare della generazione perduta dei figli delle emigrate), Tamara ha voluto che la primogenita venisse in Italia. Per capire. «Assisteva un anziano. Immobile a letto. Doveva lavarlo. Ha resistito un anno. ’Non fa per me’ ha detto. Quanti sacrifici facciamo... Non se ne rendono conto. Ricevono i soldi e li sperperano. Per i nostri figli e i nostri uomini, che davvero non sono granché, con quel dannato vizio della bottiglia, siamo vacche da mungere».
A Milano c’è una chiesa, nel quartiere Isola. Di domenica, gli ucraini la «occupano» per lunghe messe cantate. Una settimana fa padre Alexandre ha battezzato Solomia, figlia di Iryna e Andrey. Ormai si nasce soltanto all’estero: l’Ucraina ha un incremento della popolazione del meno 6,4%. Le ucraine, qui chiamate badanti e là «assistent» in quanto, tengono a precisare, «il verbo badare si usa con gli animali», inviando le rimesse producono il 30% del prodotto interno lordo. In patria, chi è rimasto, con una moneta debole e paghe basse (il salario di un medico è di 250 euro) considera le «assistent» alla stregua di prostitute, che inseguono all’estero la ricchezza abbandonando i bimbi. «Ma se noi viviamo per loro? Per farli laureare?» s’infuria Tamara.
Una recente legge ha disposto la chiusura delle sale da gioco, con i videopoker. Erano diventate troppo affollate, erano spuntate perfino nella lontana, dimenticata e a tratti vergine (l’acqua viene ancora pescata dai pozzi) campagna. Così ora, eliminata la concorrenza delle macchinette, gli spacciatori di droga si lavorano i danarosi «orfani». Villaggio per villaggio. Casa dopo casa. Senza fretta. Con noi italiani che continuiamo a invecchiare, hanno tutto il tempo di questo mondo.