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 2009  giugno 22 Lunedì calendario

Il Buriganga è un’arteria vitale di Dhaka, acque che trascinano i resti di un intero subcontinente e dei ghiacciai dell’Himalaya

Il Buriganga è un’arteria vitale di Dhaka, acque che trascinano i resti di un intero subcontinente e dei ghiacciai dell’Himalaya. Quando fa il suo ingresso nella megalopoli del Bangladesh, dopo aver percorso per migliaia di chilometri il Tibet cinese e poi l’India, questo è appena un braccio del Brahmaputra eppure appa­re una distesa enorme, tranquilla, solcata da pre­carie barchette facili da schiacciare come scara­faggi fra i rugginosi cargo mezzo affondati dai lo­ro stessi carichi. lì, fra gli slum di fiume, che alcune donne velate si concedono una gita a re­mi in mezzo ai rifiuti galleggianti, i bambini nuo­tano, gli uomini pescano, gli anziani si lavano molto lentamente. Con i suoi oltre 800 fiumi incrociati, l’acqua è il sangue vitale del Bangladesh, ma è un plasma che può anche avvelenarlo, diventare un implaca­bile diabete che infetta e erode il corpo che lo ospita. Gli scienziati lo chiamano cambio climati­co. E il governo di questo Paese vi cerca sempre più insistentemente una soluzione che gli per­metta di ottenere indennizzi dall’Occidente, com­presa la migrazione in America e in Europa di una parte delle popolazioni delle zone divenute ormai inabitabili. «I responsabili del cambio cli­matico non siamo noi, sono i Paesi sviluppati’ accusa Sheikh Hasina, primo ministro del Bangla­desh ”. Noi qui ne stiamo subendo le conse­guenze e iniziamo a chiederci come sarà possibi­le salvare la nostra terra. La comunità internazio­nale dovrà venirci in aiuto». Secondo l’Ipcc delle Nazioni Unite, l’Intergo­vermental Panel on Climate Change, il contribu­to del Bangladesh ai gas-serra è dello 0,19%; l’Oc­cidente invece ha prodotto il 70% del totale delle emissioni dal ”50 ad oggi. Ma per sperimentare di cosa parli davvero Sheikh Hasina bisogna scendere i corsi d’acqua di trecento chilometri e undici ore d’auto più a sud di Dhaka, verso il Golfo del Bengala. Lì un’en­nesima derivazione limacciosa, gonfia per l’ap­porto ulteriore del Gange, lambisce un villaggio chiamato Kalapara. Sono ventimila abitanti fra le baracche di lamiera nel verde, dietro un terrapie­no a filo di un fiume che in questo tratto prende il nome di Agunmukah. Qualche giorno fa, un’ondata sospinta dal mare ha strappato via un argine largo quindici metri come fosse stato un foglio di stagno. I pali di cemento della luce sono ancora a terra, spezzati di netto. La costa dista venti chilometri ma pozzi profondi 50-60 metri danno acqua salata, che ha già bruciato le coltiva­zioni di riso dei dintorni. Negli acquitrini e negli stagni, cioè ovunque, il fetore di pesce in putrefa­zione aggrava il silenzio del villaggio. Nel Paese più irrigato al mondo non c’è più acqua per bere. Sono gli effetti di Aila, il ciclone che a fine mag­gio ha investito le zone costiere del Sud-Ovest: almeno 200 morti, centinaia di migliaia di sfolla­ti, quasi cinque milioni di persone private del rac­colto, del bestiame o degli allevamenti di pesce. andata sempre meglio che nel novembre del 2007, quando il ciclone Sidr uccise 10 mila benga­lesi, distruggendo le fonti di sostentamento per altre decine di milioni. Ed è andata meglio anche rispetto a un anno fa, quando Nargis deviò all’ul­timo oltre frontiera dal Bangladesh verso la Bir­mania, uccidendo lì 100 mila persone. Unico pas­saggio recente della buona sorte, il ciclone Ra­smi che nel luglio del 2008 perse la sua forza pri­ma di abbattersi a riva. Fanno quattro uragani in tre anni. Con questa povertà e 150 milioni di abitanti che vivono in meno della metà del territorio italiano, basta mol­to meno di Katrina per una catastrofe. Il Bangla­desh non vi è nuovo, durano da secoli, ma l’Ipcc trova che l’aumento della temperatura del Piane­ta ne abbia aumentato la frequenza. L’andamen­to erratico delle piogge contribuisce anche alla successione di alluvioni che nel 2007 hanno som­merso gran parte del Paese. E un solo grado in più nella temperatura media del mondo può far finire sott’acqua l’11% del Paese, con le case di decine di milioni dei suoi cittadini; la salinità del­l’acqua di fonte segnala che sta già avvenendo, mentre esperti come Nicholas Stern della Lon­don School of Economics stimano un surriscalda­mento di cinque gradi entro il 2050 ormai plausi­bile. C’è nel mondo chi si difende, non troppo lon­tano da qui. Il governo della Maldive ha creato un fondo sovrano per comprare ai suoi 400 mila abitanti terra all’estero, magari in Australia, quando l’acqua salirà. Un’idea che fa infuriare Sheikh Hasina, nella sua residenza di Dhaka: «Noi non abbiamo soldi per comprare terra da nessuna parte, non siamo semplicemente in gra­do di farlo – ribatte ”. Quel che possiamo fare, è discutere con i Paesi sviluppati perché accolga­no la nostra gente colpita e sfollata dal cambio climatico». Hasina intende presentare la sua ri­chiesta al vertice di Copenaghen di fine anno, quando 180 governi negozieranno per dare un se­guito al Protocollo di Kyoto in scadenza nel 2012. La premier non dà cifre: è una politica pura del subcontinente, emotiva e vulcanica, figlia del fondatore del Paese, sopravvissuta allo stermi­nio dell’intera famiglia e a altri otto attentati, vici­na ai Gandhi e al loro carisma populista misto di moderatismo (nel suo caso, musulmano) e atten­zione alle masse dei diseredati. Anche senza numeri, un concetto Hasina però lo mette in chiaro: per il Bangladesh, il vertice di Copenaghen è il momento di chiedere un inden­nizzo ai ricchi della Terra. «Qui per vivere con il cambio climatico abbiamo bisogno di scavare i letti dei fiumi, ricostruire gli argini, ripiantare al­beri lungo la costa per contrastare l’erosione e l’impatto dei cicloni. Dobbiamo recuperare terre coltivabili». L’elenco del primo ministro del Ban­gladesh costa senza dubbio molti miliardi di dol­lari: «Si tratta di somme considerevoli – conce­de ”. Dovrebbero metterle a disposizione i Paesi sviluppati». Di fronte a queste rivendicazioni, fra i diplo­matici occidentali lo scetticismo è palpabile. Ma non sarà facile liquidarle con un’alzata di spalle visto che su questo punto persino il premio No­bel Muhammad Yunus, venerato in Europa come «banchiere dei poveri», è inflessibile: «Non basta che voi ricchi ci versiate qualche soldo o accettia­te qualche immigrato in più per liberarvi la co­scienza – osserva ”. Dovete impegnarvi a cam­biare il vostro stile di vita in modo che ciò che fate non vada a detrimento degli altri». A Kalapara, in una malridotta casa fra i canali, il responsabile locale della Guardia forestale sem­bra fuori di sé: «Anche quando non c’è il ciclone, l’acqua dei pozzi ormai è sempre salata. Le gente sta prendendo coscienza che questi distretti un giorno saranno sommersi. Le famiglie vogliono uscire di qui, ma nessuno sa come», grida Ali Yakub Khondoker. Fuori le capre pascolano in un’erba scintillante, i bambini giocano negli sta­gni; non fosse per l’acqua che spinge sul filo de­gli argini, fetida e violenta, sarebbe un bellissi­mo idillio primordiale.