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 2009  giugno 22 Lunedì calendario

DIMMI CIO’ CHE LASCI E TI DIRO’ CHI SEI


Se credessimo alla buona fede degli uomini, esisterebbero luoghi in cui essere sinceri è d’obbligo. Basta però una spruzzata di scettico realismo e di disincanto per convincerci di quanto l’autenticità sia merce rara. Alcuni si fidano della pagina scritta, del racconto di se stessi; eppure, che lo si voglia o no, è impossibile evitare una dose, piccola o grande, di mistificazione: l’autobiografia è pur sempre letteratura. Anche se con le migliori intenzioni, è in ogni caso fiction. Ci sono poi i confessionali e i lettini degli psicanalisti, ma la tentazione della menzogna non viene meno neanche davanti al prete e all’analista. A ben pensarci, rimane un solo mezzo a cui abbandonare senza trucchi noi stessi e le nostre verità: il testamento. Cioè lo specchio più autentico di una personalità.

Dimmi quello che lasci (e come lo lasci) e ti dirò chi sei. Un assioma che vale anche e soprattutto per i potenti e gli uomini illustri: un testamento redatto in prossimità della morte rivela spesso ciò che la diplomazia, l’ipocrisia e le convenzioni sociali tacciono. Curioso e interessante è perciò il libro di Salvatore De Matteis, una raccolta delle ultime volontà dei protagonisti della vita italiana politica, culturale e religiosa tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento (Così deciso, così sia, Aliberti, pagg. 380, euro 17,50). Una vera galleria di personaggi che mettono a nudo in extremis la propria filosofia di vita, le proprie debolezze e, in qualche caso, certe fisime inconfessate.

Si scopre, ad esempio, l’improvviso zelo religioso di Camillo Benso conte di Cavour che, pur credente non impeccabile in vita, raccomanda all’erede la celebrazione di cento messe «in suffragio della sua anima». Ad altri, apparire ciò che non si è riesce più difficile e i nodi (leggasi i pettegolezzi) vengono al pettine. Non aveva fama di prodigo Alessandro Manzoni, il quale dopo aver accompagnato quasi tutti i figli alla tomba, destina al fedele servitore poco più che le briciole, giustificate (excusatio non petita) dalla «ristrettezza» del proprio patrimonio. Diverso fu il contegno di Giuseppe Verdi: non si accontentò di lasciare le sue immense sostanze a ospedali, istituti e asili per l’infanzia, ma stabilì di distribuire ai poveri del villaggio di Sant’Agata il giorno successivo alla sua morte la bellezza di mille lire.
Il testamento inoltre può essere lo strumento più utile per ottenere il perdono. A esso si affida la speranza di un felice approdo al Paradiso, specie quando si ha qualcosa di cui ci si vergogna davanti a Dio. Il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli aveva sulla coscienza i propri versi segreti licenziosi e disincantati e predispose a mo’ di purificazione funerali poverissimi. Ad Antonio Fogazzaro, invece, la Chiesa aveva riservato la condanna dell’Indice: davvero troppo per un cattolico dichiarato, a cui non bastarono gli atti di pubblica obbedienza. Quattro anni prima di morire, non poté fare a meno di consegnare alla carta la propria tormentata verità: «Perdono a tutti coloro che per le mie opinioni religiose mi hanno, da opposte parti, detto ingiuria. Mi abbandono pregando e sperando alle braccia del Padre che sa le mie vere colpe e il mio dolore».


Se credessimo alla buona fede degli uomini, esisterebbero luoghi in cui essere sinceri è d’obbligo. Basta però una spruzzata di scettico realismo e di disincanto per convincerci di quanto l’autenticità sia merce rara. Alcuni si fidano della pagina scritta, del racconto di se stessi; eppure, che lo si voglia o no, è impossibile evitare una dose, piccola o grande, di mistificazione: l’autobiografia è pur sempre letteratura. Anche se con le migliori intenzioni, è in ogni caso fiction. Ci sono poi i confessionali e i lettini degli psicanalisti, ma la tentazione della menzogna non viene meno neanche davanti al prete e all’analista. A ben pensarci, rimane un solo mezzo a cui abbandonare senza trucchi noi stessi e le nostre verità: il testamento. Cioè lo specchio più autentico di una personalità.

Dimmi quello che lasci (e come lo lasci) e ti dirò chi sei. Un assioma che vale anche e soprattutto per i potenti e gli uomini illustri: un testamento redatto in prossimità della morte rivela spesso ciò che la diplomazia, l’ipocrisia e le convenzioni sociali tacciono. Curioso e interessante è perciò il libro di Salvatore De Matteis, una raccolta delle ultime volontà dei protagonisti della vita italiana politica, culturale e religiosa tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento (Così deciso, così sia, Aliberti, pagg. 380, euro 17,50). Una vera galleria di personaggi che mettono a nudo in extremis la propria filosofia di vita, le proprie debolezze e, in qualche caso, certe fisime inconfessate.

Si scopre, ad esempio, l’improvviso zelo religioso di Camillo Benso conte di Cavour che, pur credente non impeccabile in vita, raccomanda all’erede la celebrazione di cento messe «in suffragio della sua anima». Ad altri, apparire ciò che non si è riesce più difficile e i nodi (leggasi i pettegolezzi) vengono al pettine. Non aveva fama di prodigo Alessandro Manzoni, il quale dopo aver accompagnato quasi tutti i figli alla tomba, destina al fedele servitore poco più che le briciole, giustificate (excusatio non petita) dalla «ristrettezza» del proprio patrimonio. Diverso fu il contegno di Giuseppe Verdi: non si accontentò di lasciare le sue immense sostanze a ospedali, istituti e asili per l’infanzia, ma stabilì di distribuire ai poveri del villaggio di Sant’Agata il giorno successivo alla sua morte la bellezza di mille lire.
Il testamento inoltre può essere lo strumento più utile per ottenere il perdono. A esso si affida la speranza di un felice approdo al Paradiso, specie quando si ha qualcosa di cui ci si vergogna davanti a Dio. Il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli aveva sulla coscienza i propri versi segreti licenziosi e disincantati e predispose a mo’ di purificazione funerali poverissimi. Ad Antonio Fogazzaro, invece, la Chiesa aveva riservato la condanna dell’Indice: davvero troppo per un cattolico dichiarato, a cui non bastarono gli atti di pubblica obbedienza. Quattro anni prima di morire, non poté fare a meno di consegnare alla carta la propria tormentata verità: «Perdono a tutti coloro che per le mie opinioni religiose mi hanno, da opposte parti, detto ingiuria. Mi abbandono pregando e sperando alle braccia del Padre che sa le mie vere colpe e il mio dolore».