Giulia Crivelli, ཿIl Sole-24 Ore 20/6/2009;, 20 giugno 2009
LA FABBRICA GLOBALE SUL BRENTA
Savoirfaire: è la parola che viene pronunciata più spesso nella nuovissima fabbrica di scarpe Louis Vuitton di Fiesso d’Artico. La usano Serge Alfandary, direttore della divisione calzature della maison francese, e tutti i suoi collaboratori. Ma la usano anche i dipendenti, dai ragazzi dell’ufficio stile agli operai di lunga esperienza. Non si pensi però al savoirfaire della Madame Verdurin di Proust e alle sue feste perfettamente orchestrate: a Fiesso d’Artico, in provincia di Venezia e a pochi chilometri da Padova, savoirfaire vuole dire abilità di creare artigianalmente scarpe che, di fatto, sono tutte pezzi unici.
Persino i robot che incollano le sneaker, progettati appositamente, sembrano avere un certo savoirfaire: sono silenziosi e si muovono in una specie di elegante danza meccanica. «Savoir faire è una parola che usiamo quasi come un mantra in Louis Vuitton – conferma Pietro Beccari, vicepresidente della maison per il marketing e la comunicazione ”. Per ciascuna delle tre principali categorie di prodotto per le quali siamo famosi nel mondo abbiamo individuato il paese e il luogo che possiedono il savoir-faire migliore. Per la pelletteria c’è Asnières, in Francia; per gli orologi la manifattura di Le Chaux-de-Fonds, in Svizzera, e per le scarpe l’Italia, senza alcun dubbio. Per questo abbiamo investito decine di milioni a Fiesso d’Artico, dove già oggi lavorano 200 persone, tutte assunte in loco, che arriveranno a 250 entro pochi mesi».
Le calzature vendute nei 432 negozi dei 61 paesi in cui Louis Vuitton è presente (che diventeranno 62 in ottobre, con l’apertura del primo negozio in Mongolia) saranno presto non solo made in Italy, bensì "made in Riviera del Brenta". Un esempio, per una volta concreto, della filosofia economica e manageriale del glocal, il locale che diventa globale. Con un’attenzione maniacale alla qualità: nella «sala delle torture», come la chiama Serge Alfandary, ogni componente delle scarpe viene schiacciato, martellato, liso, da crudelissimi robot che ne devono testare la resistenza.
Per Fiesso d’Artico il termine fabbrica è inappropriato. O piuttosto, il complesso veneziano è una nuova idea di fabbrica, a cominciare dalla sostenibilità ambientale. Le facciate dell’edificio sono rivestite da una maglia di acciaio inossidabile,che riduce l’effetto accecante del sole allo zenit e riduce i costi energetici; il sistema di riscaldamento geotermico permette di coprire il 95% del fabbisogno di energia e l’acqua piovana viene raccolta in un bacino sotterraneo e filtrata, per ridurre il consumo di acqua potabile. Ma Fiesso d’Artico colpisce soprattutto perché, concreatamente e non solo a parole, sembra fatta per rendere la vita di chi ci lavora più piacevole. I pavimenti dei tre atelier (reparti sarebbe un’altra parola inadeguata) dove lavorano gli operai sono in parquet, alle pareti ci sono opere d’arte e ogni postazione è stata studiata dal punto di vista ergonomico e della luce. La superficie complessiva di 11mila metri quadrati è continuamente interrotta da piccole aree verdi, che ricordano i giardini giapponesi. L’età media delle persone assunte da Vuitton è 40 anni: «Agli artigiani con molta esperienza, a volte rimasti senza lavoro per la crisi che ha colpito questo come molte altri distretti industriali europei, abbiamo affiancato ragazzi giovani, ai quali trasmettere il savoir-faire: sarebbe un delitto se andasse perduto», aggiunge Beccari.
Poi c’è l’arte: nel grande giardino al centro dello stabilimento c’è una scultura comprata da Louis Vuitton dopo essere stata esposta alla Biennale di Venezia, una gigantesca scarpa fatta dall’artista portoghese Joana Vasconcelos con 600 pentole in acciaio inox. Accanto agli atelier c’è una vera e propria galleria d’arte di 300 metri quadri, con opere, tra gli altri di Richard Prince e Andy Warhol, ma anche scarpe antiche di secoli e proveniente da tutto il mondo, raccolte durante i loro viaggi da Pietro Beccari e Yves Carcelle, presidente di Louis Vuitton dal 1990. stato proprio Carcelle a voler creare la «scatola magica » di Fiesso e in questi giorni, con l’entusiasmo che lo caratterizza, si aggira felice tra gli atelier e gli spazi verdi, parlando in un globish fatto di francese, inglese e italiano. Che tra un po’, forse, si arricchirà di una bella inflessione veneta.