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 2009  giugno 20 Sabato calendario

L’intellettuale pentito: «Riparare motociclette Questa è la felicità» - A forza di sostene­re che il futuro era dei «lavoratori del­la conoscenza», degli «analisti simbo­lici » e delle «classi creative», gli ame­ricani hanno svuotato le officine e riempito gli uffici di Wall Street

L’intellettuale pentito: «Riparare motociclette Questa è la felicità» - A forza di sostene­re che il futuro era dei «lavoratori del­la conoscenza», degli «analisti simbo­lici » e delle «classi creative», gli ame­ricani hanno svuotato le officine e riempito gli uffici di Wall Street. Ab­biamo perso ogni capacità di fare co­se con le nostre mani. Dagli anni ”90 abbiamo smantellato le «shop class» (l’insegnamento di quelle che in Ita­lia chiamiamo applicazioni tecni­che): da allora nessuno impartisce più, nei licei Usa, nozioni di falegna­meria, carpenteria, tessitura, elettrici­tà. Risultato: anziché raggiungere l’eden dell’economia immateriale, «siamo diventati un popolo insoddi­­sfatto, frustrato, incapace di fare le cose pratiche più elementari, aliena­to dalla vita grigia nei cubicoli degli uffici». La provocazione – a suo modo di­rompente, visto che cade nel bel mez­zo di una crisi di identità dell’Ameri­ca e di una gravissima crisi finanzia­ria innescata dall’uso eccessivo di strumenti «immateriali» – è di Mat­thew Crawford: un curioso personag­gio che ha cominciato la sua carriera come fisico in California, si è innamo­rato della filosofia conseguendo un’altra laurea e un PhD a Chicago, è andato a fare l’analista in un «think tank» di Washington, ha perso ben presto interesse per il suo lavoro irri­tato dalla sua mancanza di concretez­za e si è messo ad aggiustare motoci­clette. Oggi vive felicemente a Rich­mond dove gestisce un’officina di ri­parazioni meccaniche e insegna (a tempo perso, sembra di capire) alla University of Virginia. Il libro da lui appena pubblicato negli Usa ( Shop Class as Soulcraft, editore Penguin) potrebbe anche es­sere liquidato come un sermone cu­rioso ma irrilevante, se non fosse che cade nel bel mezzo della rivoluzione culturale dell’«austerità obamiana», col presidente che invita di continuo gli americani a rimboccarsi le mani­che e Michelle che dà l’esempio pian­tando cavolfiori nel giardino della Ca­sa Bianca e impartendo lezioni di orti­cultura ai ragazzi che le fanno visita. Il testo di Crawford, benché basa­to su argomenti messi insieme aven­do i piedi ben piantati per terra, sta affasciando molti letterati per i suoi riferimenti a Lo Zen e l’arte della ma­nutenzione della motocicletta, un rac­conto filosofico e di viaggio di Ro­bert Pirsig, che negli anni ”70 fu un libro di culto per molti giovani. Il sag­gio ha, però, colpito anche sociologi e critici che hanno aperto un dibatti­to sulla necessità di tornare all’arti­gianato persino sulle colonne del New Yorker e del Christian Science Monitor. L’intervento forse più sor­prendente è stato quello del politolo­go Francis Fukuyama che, nel supple­mento letterario del New York Ti­mes, non solo concorda con Crawford sul fatto che aver sottovalu­tato e disincetivato per anni il lavoro dei colletti blu è stato un tragico erro­re, ma confessa che i suoi veri mo­menti di gioia non sono quelli dietro la cattedra della John Hopkins Univer­sity: «Anche se mi guadagno da vive­re facendo il lavoratore della cono­scenza simbolica – scrive l’autore de La fine della storia – mi sento ap­pagato soprattutto quando cavalco motociclette o quando costruisco con le mie mani pezzi di mobilio: il tavolo della cucina, i letti dei miei fi­gli, le riproduzioni di alcuni pezzi d’antiquariato ’Federal style’ che non posso permettermi in versione originale». Non è chiaro fino a che punto le tesi «controcorrente» di Crawford an­ticipino un fenomeno che potrebbe emergere nella società. La denuncia del meccanico-filosofo dell’incapaci­tà degli americani di fare le cose con le loro mani coglie nel segno: chi, co­me me, vive negli Stati Uniti sa bene quanto sia difficile trovare artigiani e tecnici competenti. Appena si esce dai processi industriali sapientemen­te organizzati, c’è il vuoto. La sua ri­chiesta di reintrodurre nei licei l’inse­gnamento di alcune attività manuali potrebbe anche trovare buona acco­glienza nell’America di Obama. Tan­to più che già da tempo, dalle cucine slow food (sempre più diffuse anche da questa parte dell’Atlantico) al­l’agricoltura biologica nelle fattorie suburbane, molti hanno cominciato a reagire agli eccessi di industrializza­zione dei processi produttivi, ad esempio nella catena alimentare. Le motociclette di Crawford, la sua infanzia vissuta in una comune, il primo lavoro, a 15 anni, in una offi­cina specializzata nella manutenzio­ne delle Porsche, richiamano alla mente lo «Zen» di Pirsig: un vetera­no della guerra di Corea che nel ”74 pubblicò il racconto del suo viaggio da costa a costa – per metà metafori­co – nel quale mescolava Kant e tec­nofobia, esplorava col figlio Chris (che morirà accoltellato in una rapi­na a San Francisco cinque anni do­po) le strade secondarie delle grandi pianure e la crescente abulia dei mec­canici americani che già 35 anni fa stavano perdendo le loro conoscenze tecniche, la loro capacità di «capire» la motocicletta che avevano tra le ma­ni. Quello, però, era un viaggio filoso­fico- spirituale: aggrappato al figlio che diventa un’àncora e attraverso la sua «metafisica della qualità», l’auto­re svolge, in realtà, una ricerca su se stesso. Con la sua denuncia della glo­balizzazione e della diffusione forza­ta delle tecnologie che «ci rendono più stupidi, spingendoci verso lavori maniacalmente ripetitivi» e di una «separazione del pensare dal fare che degrada il lavoro», Crawford svilup­pa, invece, soprattutto un messaggio politico e sociologico. Crawford, co­munque, non è un marxista «di ritor­no »: semmai è uno che sogna la fram­mentazione del grande gruppo alie­nante in una miriade di piccole im­prese vitali. Una specie di fautore di quel «piccolo è bello» che a noi italia­ni ha regalato la ricchezza di un tessu­to di imprese brillanti e agili, ma che alla lunga ha mostrato i suoi limiti proprio davanti alle sfide ineludibili della globalizzazione.