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 2009  giugno 18 Giovedì calendario

CASA TESTORI IL PROFUMO DI GIORNI FELICI


Era un rito quasi sacrale, per lui, chiudersi alle spalle il pesante portone manzoniano dello studio di Via Brera (le telefonate e le visite degli artisti-questuanti, le grane della Galleria del Disegno, che lui pilotava nell’ombra, non troppo clandestinamente e scandalo! se osava elogiare sul Corriere le sue stesse mostre, e le beghe con lo star-system milanese, delle vituperate Aulenti, Cederna, del bestemmiato Craxi) ecco, gettava come un cancello ferreo sulla sua vita di città, e si buttava, vecchio ragazzo, affranto pendolare, nel trenino delle Nord coi sedili di legno, a rimbozzolarsi ogni volta nel suo nido ombelicale: la casa austera e lombarda di Novate, ove lo attendeva nel buio «mammetta», e lui non smetteva mai di tornarci. E magari ti conduceva talvolta con sé, gentile ma sempre insinuante, pronto ad una di quelle sue sfuriate borromaiche e millenaristiche, che potevan esplodere per un nonnulla, ad un nome, ad uno spiraglio cedevole di polemica, che fosse l’adorato soprano Birgit Nilsson Nilsen contro la Flastag oppure Manzoni vs Parini. A mostrarti di nascosto, come un cospiratore domestico, l’ultimo Courbet appena sfilato ad un amico collezionista, oppure un San Sebastiano languido di Francesco Cairo. L’ultima sua scoperta di giovin pittore, che fosse Crocicchi o Velasco, oppure la furiosa slavina cromatica di lapilli che invadevano le stanze attutite di casa, del prediletto Varlin. E fa molto effetto tornarci oggi, a sedici anni dalla sua scomparsa, nello stesso raccolto (ed ora rivificato giardinetto: ci son persino della rose rosso-antico, che han preso il suo nome ufficiale: le rose Testori, furenti e senza profumo) in cui si dipanò la sua commovente cerimonia funebre per pochi amici (di nuovo: un piccolo enterrenment, da Courbet pre-brianzolo) e dove le stanze ora vuote (accanto all’ancora attiva fabbrica Testori: feltri e filtri industriali) ospitano un’inconsueta mostra di giovani artisti, ognuno che s’appropria vampiricamente d’una stanza (c’è persino l’esordio dell’enfant prodige della storia dell’arte, Giovanni Agosti, che inventa, per il bagno, una voyeuristica «spia» di serratura duchampiana).
Inconsueta, si diceva, perché ci han pensato i tre nipoti d’arte Frangi (uno giornalista, l’altro storico d’arte, uno, pittore, Giovanni, che si strappa la ex stanza da letto, con nere incisioni-rampicanti, davvero affascinanti) che proprio per decapitare il poco tollerabile «testorismo» (ci sono effettivamente critici che lo scimmiottano, ma senza il suo sangue e le sue trippe) non han scelto i più prevedibili creati o gli epigoni rassicuranti del suo gusto, calvinista e viscerale, ma giovani completamente avulsi dal suo mondo. Sotto il titolo beckettiano di Giorni Felici.
Esordienti, spesso, con l’eccezione di Basilico, che mostra un bellissimo scatto notturno della Chiesa di San Carlo al Corso, ove Testori affrescò i quattro evangelisti, terribilmente picassiani, che poi i Padri Serviti ed il demonizzato Cardinal Schuster censurarono e scialbarono, ahimé. Oppure lo Studio Azzurro, che elabora uno spettacolo di Sandro Lombardi, dai Due Lai. Una stanza è colma dei suoi Tramonti, disegni roventi e testi, schiusi tutti su descrizioni di crepuscoli, come in Macbetto: «il disco rotante s’inflammisce/ perde cervello e sangue/ fatto incosì di barluscenti e diamantati doramenti».
Pare, tra le nudi pareti, di riacciuffare la sua voce, tonante ed insieme suadente, gli occhi pervinca, così ben descritti dalle tele di Vitali (un altro grande sconosciuto, uno dei suoi «salvati») che ti trivellavano e ti crocefiggevano a dolci esami, di gesuitica malizia: «ma tu, per esempio...». Un ritornello, che par di riudire: «Ma che mi dici per esempio di Pasolini?», e giù sferzate e diluvi, di rabbia e fulmini, così come per Parise, Raboni, Volponi, la Morante. Che stimava e dunque sentiva rivali. Era generosissimo ed insieme inflessibile. L’amore per una vita e poi l’odio repentino per Morlotti, per esempio: «non mi dirai mica ch’è un pittore, quello» e poi il repentino, ultimo recupero, commovente. Era un critico nato e uno storico a sangue caldo, vivaddio, che sapeva scegliere e battagliare: prendeva continuamente partito.
Solo la stima immarcescibile per certe pagine d’arte, di unico, vero e solo longhiano, avevan fatto dimenticare, in chi scrive (e veniva da altri mondi: il bianco stile Einaudi, Fossati, Menna, Argan) l’odio adolescenziale per una serata al San Giuseppe, deliquii ciellini e Del Noce primo della-classe-tutore di cineclub, con Testori in buia scena, a contemplar la propria morte, solo al tavolinetto sindacale, tra narcisismo indomito e autoflaggelazione gonzaghesca. Poi la conversione. Ed una tensione perenne: il giovane, timido visitatore che non accetta di farsi calzare il loden dal venerato Maestro, e il Maestro penitente, che esige monasticamente di umiliarsi. Come in una comica, sempre più perigliosa: nessuno vuol cedere. Alla Falstaff: col rischio di non uscire mai più dallo studio stregato.