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 2009  giugno 18 Giovedì calendario

CARA ZIA, VI AMO COME IL MIO SERVIZIO DA SCRITTOIO"


La storia ti viene addosso con grandi zaffate di scrittura fitta, l’inchiostro scuro ha custodito, da tre secoli!, gelosamente le parole. Inondate di quella malinconia, a leggerle oggi, che va al cuore come una nota soave. Drappeggiata, per esempio, nell’errore di ortografia di un bimbo reale che scrive «infininiment». Luigi di Francia, il Delfino, è passato alla Storia per quello che non è stato: ovvero re, successore del padre che fu XV con questo nome nella lista dei Borboni. La tubercolosi lo uccise prima che fosse venuto il suo tempo. La lettera la scrisse quando aveva quattro anni, grandi lettere in stampatello, le parole curve per la fatica dell’incertezza, separate da trattini: lo immaginiamo incitato dal pedagogo a dar prova di quanto fosse bravo con la penna alla zia, la contessa di Tolosa. L’hanno venduta ieri all’asta: 28.350 euro. Il prezzo base era di appena seimila.
Luigi XV, il padre, è passato alla storia come un sovrano frusto, sempre pronto a genuflettersi alla bellezza di un’amante o al fremito di una partita di caccia, i peccati non gli pesavano, gli stavano a galla sulla coscienza. E la Francia scivolava verso la bancarotta. Ma la lettera scritta, ancora alla contessa di Tolosa, per la malattia di quel figlio sfortunato ci offre di lui un momento di disperazione solitario, puro: «Vi confesso signora che fino a oggi non ho avuto il coraggio nè la forza di scrivervi per mandarvi notizie così negative... La mia anima è troppo triste e il mio cuore troppo straziato. Da tre giorni la febbre diminuisce e le espettorazioni sono meno cattive... spero che i rimedi faranno effetto». Il 20 dicembre 1765 il Delfino morì.
Non è vero che i Grandi, sotto quello che fu l’Antico Regime, non scrivevano, che usavano i segretari, gli intendenti, i domestici. Quando il cuore sanguinava o era ebbro di felicità, quando bisognava raccontare la vita di tutti i giorni, minuta anche tra le ovatte e le porcellane di Versailles, prendevano la penna e sulla carta le gioie e i dolori li riparavano dallo sguardo degli altri.
La Storia, in queste lettere, non è passata al crivello che fa uscire solo la farina delle battaglie dei trattati delle frasi marmoree. Ci regalano, per fortuna, la crusca quotidiana fatta di banalità amori tradimenti batticuori malattie lutti. Più di un secolo, tra i lampi declinanti del Re Sole e il facinoroso irrompere della ghigliottina, è andato ieri all’asta a Parigi da Sotheby’s: 345 lettere che la «pietas» tenace di Maria Adelaide duchessa di Orléans ha sottratto alle procelle annientatrici dell’89. Il marito di Maria Adelaide era un Borbone che aveva sperato di poter diventate mediocre, si era ribattezzato Egalité, si era arruolato nelle armate giacobine con i due figli. Nel 1793 il terrore lo consegnò all’eguaglianza della ghigliottina. La moglie ha custodito una sua lettera scritta dal fronte, percorsa dal brivido di una premonizione: chiede al suo corrispondente parigino di custodire la missiva di un certo monsieur Biron «nel caso gli capitasse qualche incidente... in caso di bisogno e se capitasse qualche cosa a me».
Maria Adelaide raccoglieva le lettere private dei Penthièvre Borboni e Orléans per bere goccia a goccia il veleno del rammarico, ritrovare i rimbombi di tanti che la Storia e il tempo avevano precipitato e sbattuto. Un grafologico teatro di ombre. Finirono, quelle lettere, nella scrivania del figlio, Luigi Filippo, che fu re ma anche lui destinato a fuggire, nel 1848, inseguito dai furori per fortuna meno omicidi di un’altra rivoluzione. Si pensava che fossero state disperse nel sacco delle Tuileries; invece sono rimaste nascoste fino al 1929, quando riapparvero nelle mani di un libraio, Maurice Dussarp, che amava troppo i suoi manoscritti per venderli. Destino triste che invece si è compiuto ieri, e che l’incasso di 290.500 euro non basta ad indorare.
Il quotidiano dei re, dunque. L’amore nel documento più antico, 1698, una lettera scritta in latino da Luigi Augusto duca del Maine alla moglie che lo disdegnava: «Amami assente tanto quanto mi odi quando sono presente. Tu sola reggi la mia vita io vado bene se tu vai bene...Se ho commesso degli errori li ho commessi per desiderio di essere amato». E poi le gioie, come la maternità. Nelle lettere di Maria Giuseppina di Sassonia: «La grossezza del mio corpo è enorme ma ciò nonostante io mi sento leggera. Dicono che il ventre si è abbassato un po’ negli ultimi giorni e che ho il volto tirato, spero che questo annunci il parto». E i divertimenti dei re, pericolosi come le battaglie e talvolta meno gloriosi, come la caccia che Luigi XV narra nel settembre del 1766: «Il cinghiale era bello grosso... è venuto alla carica, il mio fucile ha fatto cilecca e non avevo il tempo per ricaricare. Ho fatto fare dietrofront al cavallo e il cinghiale lo ha ferito nel sedere».