Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  giugno 16 Martedì calendario

DOLLARI E TERRORISTI PER CREARE UN NUOVO GOVERNO ISLAMICO


ROMA - Era l’estrema Arabia Felix e fu il regno della regina di Saba, un immenso deserto che finiva in grattacieli di merletto, intrigante d’esotismo anche per Pasolini e Maria Callas, oltre ad altri numerosi e successivi viaggiatori incuranti degli appelli della Farnesina, «ci vivono 50 italiani, ma i viaggi per turismo sono ad alto rischio» fa sapere il responsabile dell’unità di crisi, Fabrizio Romano. Lo Yemen è diventato feudo di Al Qaeda, bunker per i suoi finanzieri - uno, arrestato proprio domenica scorsa - rifugio di terroristi sodali di Bin Laden che arrivano da ogni dove, dal Pakistan, dall’Afghanistan, dal Waziristan, perfino dalle file più estreme di Hamas, richiamati dagli appelli di Al Zawahiri, «che lo Yemen diventi terra nostra».
Lungo le sue coste, da vent’anni approdano a centinaia i migranti che fuggono dalle guerre e dalla miseria del Corno d’Africa. Mentre in mare aperto scorrazzano indisturbati, sequestrando navi europee, i pirati somali, che sono il miglior esempio di cosa può fare un terrorista tribale con una mano armata di kalashnikov magari arrugginito, e l’altra di telefono satellitare con accesso al web. Se n’è accorta l’intelligence militare londinese, lo scorso maggio: «I capi dei pirati somali telefonano ogni giorno a Londra, a Dubai, e in Yemen». Chiaro dove siano i cervelli dei moderni Frances Drake, e dove la manovalanza di mare. Ed è diventato un problema per Obama, lo Yemen: la metà dei detenuti di Guantanamo, che il presidente americano vuole chiudere, sono infatti yemeniti, o è in Yemen che finiscono. E non certo per godersi la pensione.
Dell’ultimo, orrendo delitto non c’è rivendicazione, e magari non saranno stati - come sostengono - gli sciiti di derivazione zaidista, una setta che di fatto crede che Islam sia miscela di potere e religione e che un imam valga un califfo: sono poi un quarto dei venti milioni di yemeniti e controllano tutto il Nord del paese, contendendolo al governo nazionale. Gli scontri con le truppe governative vanno avanti dal maggio dello scorso anno, «il Nord quasi ogni giorno è teatro di guerra», dicono da «Medici senza frontiere», l’associazione che opera nel governatorato di Saada con équipe internazionali nelle quali al momento non risultano italiani. Non solo, «è quasi impossibile sapere cosa accade esattamente al Nord, nelle zone di conflitto o nelle aree controllate dai ribelli: per motivi di sicurezza, è impedito l’accesso, le reti di comunicazione sono interrotte», scriveva un loro report giusto un anno fa, quando erano 35 mila gli sfollati.
Lo Yemen dal 1962, e grazie a una mano che l’Egitto diede per rovesciare il locale monarca, sarebbe una repubblica popolare, ma così popolare che il suo attuale presidente incassò alle ultime elezioni quasi il 97 per cento dei voti. Una repubblica che è la riunificazione di due diversi Yemen, diversi dall’alba della storia, ma finito l’uno sotto controllo britannico, l’altro sede della lotta marxista di liberazione e nella sfera d’influenza sovietica. La sanguinosa riunificazione, lunga e complessa, approdò a una repubblica che però, quando si trattò di schierarsi nella Guerra del Golfo, prese le parti di Saddam Hussein. Non è poi così strano, dunque, che lo Yemen sia diventato la centrale del qaedismo.
La storia che ha fatto scattare l’allarme a Langley, Virginia, è quella di Said Ali al-Shihri, 35 anni, saudita, un tempo detenuto numero 372 proprio di Guantanamo. Spedito in patria a scontare la pena, dopo un programma di «riabilitazione» fece perdere le proprie tracce, ma qualche orma venne seguita dagli americani: la Cia ritiene che sia tornato in azione nel settembre dell’anno scorso, e dove se non in Yemen? Sarebbe sua la firma dell’attentato all’ambasciata statunitense a Saana che costò 16 vite. Una storia nemmeno troppo diversa da quella di Hassan Hussein ben Alwan, anche lui saudita, arrestato domenica scorsa dalle forze yemenite, finanziere di una cellula locale che progettava attentati. Dunque, gli appelli qaedisti han funzionato. «E’ giunto il momento per un governo islamico in Yemen», esortava il 13 maggio scorso il locale leader di al Qaeda, Abu Basir Nasser al-Wahayshi. «Ribellatevi contro il presidente», era il richiamo un mese dopo. E adesso qualcuno riflette: il primo attentato di al Qaeda contro obiettivi occidentali fu proprio a Saana. Nel 1992, contro l’ambasciata americana.