Lucio Caracciolo, la Repubblica 19/06/2009, 19 giugno 2009
LA PISTOLA SUL TAVOLO
Barack Obama vuole passare alla storia come il leader americano della mano tesa alla galassia islamica. Ora sappiamo che la mano da stringere, sul decisivo fronte iraniano, sarà quella di Mahmud Ahmadinejad.
Salvo che la crisi conseguente alla vittoria più o meno rubata dello "spazzino del popolo" porti, come oggi non pare, al collasso del regime. Sapremo dunque presto di che pasta è fatto Obama: un Jimmy Carter al quadrato, ingenuotto e figlio dei fiori, come pensano molti dirigenti israeliani? Oppure un realista alla Kissinger, che non si perde in fumisterie e bada all´interesse nazionale, pur con un debole per la magniloquenza?
Perché se la Guida Suprema ha blindato il risultato elettorale, imponendo il trionfo di Ahmadinejad al primo turno, lo ha fatto perché conscio che il 12 giugno non si eleggeva solo il presidente dell´Iran, ma l´uomo che dovrà trattare con Obama. Khamenei voleva che a questo scopo fosse deputato il leader da lui inventato, piuttosto che l´odiato Mussavi, o chiunque altro dietro cui si stagliasse l´ombra dell´ancora più detestato Rafsanjani. Naturalmente riservando a se stesso l´ultima parola.
In gioco, nella partita con l´America, non è solo la bomba atomica, la stabilità dell´Iraq e dell´Afghanistan, la rilegittimazione dell´Iran come potenza regionale. Molto più, in questione è la sopravvivenza del regime. Khamenei non si fida delle garanzie di Obama. Pensa che l´America non si darà pace finché non avrà abbattuto la Repubblica Islamica. Lo scopo ultimo della trattativa con Washington che quasi tutti i leader iraniani vogliono – con toni e in modi diversi – è la piena accettazione dell´Iran come grande potenza islamica nella regione e nel mondo. Dunque, se Teheran apre il tavolo del negoziato vero, a 360 gradi, la parola d´ordine è: vietato fallire.
Lo stesso vale per Obama. Per questo evita di impelagarsi nella partita iraniana, contando che la protesta si sgonfi abbastanza in fretta. Non è uomo da "rivoluzioni colorate". Crede che il cambiamento sia necessario e possibile, ma non attraverso interventi militari o complotti dell´intelligence – in Iran nessuno ha dimenticato la defenestrazione di Mossadeq per mano della Cia, più di mezzo secolo fa. è il dialogo che mina i regimi. Non lo scontro frontale che spesso li cementa.
è chiaro che per Obama trattare con Ahmadinejad significa rischiare l´osso del collo. Moussavi, che nella sostanza non è così diverso dal suo eversore, ci avrebbe almeno messo una faccia nuova, non sporcata dalle contumelie antisemite del presidente attuale. Ma alla Casa Bianca prevale l´idea che non vi sia alternativa al dialogo con l´Iran se si vuole disincagliare la corazzata americana, finita nelle secche mediorientali negli otto anni di Bush.
D´altronde, gli interessi americani e iraniani sono compatibili in Iraq e quasi identici in Afghanistan. Il vero scoglio sembra il nucleare, anche per la sua potenza evocativa. Obama non può permettersi che alla fine del negoziato l´Iran esibisca la bomba atomica.
Ma Khamenei e associati vogliono davvero l´arma definitiva? E vogliono usarla contro Israele? Si può dubitarne. A meno di non attribuire una vocazione suicida al regime. Il che è certamente lecito, visto che la politica non sempre obbedisce alla ragione, o a ciò che noi qualifichiamo tale. Ma se è vero che pasdaran, basiji, autorità religiose e altre corporazioni consociate sono vocate al primum vivere, l´Iran si fermerà a un passo dalla Bomba. Si accontenterà di poter allestire in pochi mesi un arsenale atomico, in caso di emergenza, piuttosto che sventolarlo sotto il naso di arabi e israeliani. I primi non impiegherebbero molto per dotarsi di un deterrente analogo. Gli altri, che l´hanno ma non lo ammettono, dovrebbero scegliere fra attacco preventivo (secondo il capo del Mossad ci sono cinque anni di tempo) e deterrenza stile guerra fredda. Israele ha già oggi in canna il secondo colpo distruttivo, disponendo di testate atomiche montate su sottomarini (di fabbricazione tedesca – nemesi storica), che scamperebbero quindi a un attacco nucleare contro il suo territorio.
Obama non può dirlo, e forse non lo dirà mai, ma sembra aver accettato la "soluzione giapponese". Pare rassegnato a che l´Iran si doti di tutto ciò che serve per costruire l´arma atomica, ma non di essa. Una distinzione sottile. Forse capziosa, se non ipocrita. Perché nucleare civile e bomba atomica non sono poli opposti, ma tappe lungo l´identico percorso.
Alla fine la decisione iraniana e americana sarà politica, non tecnica. Purché prima non ci pensi Israele, sempre più preoccupato dall´inclinazione di Obama al dialogo con il suo nemico esistenziale, a sparigliare i giochi attaccando l´Iran. La pistola forse non sarà mai usata, ma resta sul tavolo. In bella vista.