Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  giugno 19 Venerdì calendario

VISTI DA LONTANO


Voto a pagamento: e gli alunni migliorano
Premiate i vostri figli quando ottengono buoni risul­tati a scuola? Probabilmente sì. Li ricompensate an­che rimpolpando la loro «paghetta»? Forse. Negli Stati Uniti da un po’ più di un anno alcune scuole stanno sperimentando qualcosa di più audace e controverso: un compenso in dollari per ogni buon voto ot­tenuto nei test tenuti periodicamente: 50 dollari per una A, l’eccellenza, 35 per una B, 20 per la C (poco più della suffi­cienza).

Concepito inizialmente da un giovane docente di Har­vard (Roland Fryer) e sostenuto da varie fondazioni filantro­piche (come quelle di Bill Gates ed Eli Broad), l’esperimento si è diffuso da Chicago a Washington, dal Texas a New York, sempre in un numero limitato di classi-pilota. Le polemi­che non sono mancate: i voti a pagamento sono diseducati­vi, dicono in molti. Altri sostengono che, soprattutto nei quartieri maggiormente segnati dalla povertà e dal disagio sociale, un piccolo incentivo economico serve a motivare i ragazzi, a scuoterli, a evitare che vadano a lavorare o a cerca­re guadagni illeciti.

Anche i primi risultati parziali hanno alimentato letture contrapposte. Ora a New York sono arrivati i primi dati rife­riti a un intero anno scolastico. Sono positivi: il profitto medio degli studenti è cresciuto più che nella media degli istituti della città, nei due terzi delle 59 scuole in zone povere della città che hanno partecipato al programma «Sparks». Gli espe­rimenti sono stati fatti solo in quarta elementare e seconda media, dove i ragazzi più meri­tevoli hanno ricevuto rispettiva­mente 250 e 500 dollari nell’ar­co dell’anno.

Nonostante questi dati confortanti, non è detto che l’espe­rimento continui. Ad Harvard vogliono essere ben certi del­la validità di questa nuova tecnica pedagogica, prima di pas­sare dall’esperimento alla pratica quotidiana; e i dati com­plessivi arriveranno solo in autunno.

Joel Klein, il sovrintendente del sistema scolastico della metropoli, ha, comunque, mostrato di credere nel nuovo si­stema di incentivazione magari modificando la formula: in alcune charter school di Brooklyn (istituti gestiti da privati ma utilizzando fondi pubblici) anziché soldi sono stati dati telefonini con schede prepagate. Man mano che i voti mi­gliorano, i ragazzi vengono premiati con le ricariche.

I dubbi, però, rimangono forti. In un Paese in cui il dolla­ro è l’unità usata per misurare quasi tutto, le tendenze alla «monetizzazione» andrebbero frenate. I docenti, in maggio­ranza contrari all’esperimento, temono di essere schiacciati dalla cultura manageriale. Mesi fa, la maggioranza dei 74 amministratori delegati di grosse compagnie intervistati da USA Today si disse favorevole al programma dei «voti a pa­gamento ». Ma era prima della grande crisi finanziaria: da allora la popolarità dei capiazienda è precipitata.