Notizie tratte da: Jeffrey Moussaieff Masso # Chi c’è nel tuo piatto? Tutta la verità su quello che mangi # Cairo Editore 2009 # pp. 320, 16 euro., 19 giugno 2009
Notizie tratte da: Jeffrey Moussaieff Masso, Chi c’è nel tuo piatto? Tutta la verità su quello che mangi, Cairo Editore 2009, pp
Notizie tratte da: Jeffrey Moussaieff Masso, Chi c’è nel tuo piatto? Tutta la verità su quello che mangi, Cairo Editore 2009, pp. 320, 16 euro.
Rif. Libro in gocce sch. n. 1392322
INTRODUZIONE
Vogliamo la bistecca ma non ci piace pensare al mattatoio.
Noi siamo gli unici animali che possono «decidere di diventare vegetariani».
Mangiare carne è una tradizione umana. Il fatto che i vostri genitori mangino carne non è un argomento a favore di tale scelta.
(degli animali, ndr) «Non dobbiamo chiederci se sono in grado di ragionare o se sono in grado di parlare. Piuttosto, dobbiamo chiederci se sono in grado di soffrire» (Jeremy Bentham).
CAPITOLO 1
IL SOLO MONDO CHE ABBIAMO
La dieta americana standard non è sostenibile: danneggia il nostro ambiente in vari modi ed è una delle principali cause del riscaldamento globale.
«Il modo in cui abbiamo sempre mangiato» potrebbe rivelarsi disastroso per il pianeta.
Siamo l’unica specie priva della capacità istintiva di stabilire quali alimenti mangiare per mantenerci in salute, mentre tutti gli animali la possiedono. Ci consideriamo una specie superiore, eppure stiamo distruggendo il solo pianeta che abbiamo, mettendo così a rischio la nostra stessa esistenza.
Gli allevamenti industriali e quelli intensivi stanno inquinando l’acqua, l’aria e la terra. E a subirne le conseguenze sono anche gli esseri umani, oltre che le piante e gli stessi animali.
Siamo noi stessi la causa della distruzione che incombe su di noi.
Le stime dell’Environmental Protection Agency (EPA), l’ente per la protezione ambientale americano, indicano negli allevamenti la causa di quasi il 20 percento delle emissioni di metano dovute ad attività umane.
RIFIUTI. La popolazione mondiale di mucche e maiali conta 2, 5 miliardi di esemplari, i cui escrementi ogni anno ammontano a oltre 80 milioni di tonnellate. Negli Stati Uniti il quantitativo di rifiuti animali è 130 volte superiore a quello dei rifiuti umani. I deflussi degli allevamenti industriali (parliamo di 1, 3 miliardi di tonnellate di rifiuti) rappresentano una fonte di inquinamento per i nostri fiumi e i nostri laghi maggiore di tutte le altre attività industriali messe insieme.
Gli animali degli allevamenti industriali americani producono 40 tonnellate di rifiuti al secondo o, in altri termini, un quantitativo 130 volte superiore a quello prodotto dall’intera popolazione degli Stati Uniti. Questo vuole dire che ci sono circa 5 tonnellate di rifiuti animali l’anno per ogni singolo abitante. Le pozze di rifiuti organici, composte da escrementi e urina, sono sovente più estese di una piccola città (un tipico allevamento di maiali genera un quantitativo di rifiuti pari a quello di una cittadina di 50mila abitanti). Tra gli abitanti dei centri limitrofi a queste pozze di escrementi si riscontrano frequenti casi di aborto spontaneo o, peggio, di «sindrome del bambino blu», che causa una drastica riduzione della capacità del sangue di trasportare ossigeno.
Il solfuro di idrogeno che si leva da queste pozze, un gas acido che irrita gli occhi e il tratto respiratorio, può causare danni celebrali.
La polvere sollevata dai milioni di animali negli allevamenti sparsi in tutti gli Stati Uniti contiene batteri, muffa e funghi derivanti dalle feci animali e dal cibo di cui si nutrono. Uno studio ha scoperto che nel solo Texas queste particelle ammontano a più di 7000 tonnellate l’anno.
Oggi è consuetudine allevare il bestiame con l’uso di ormoni e antibiotici. Il 75 percento di questi antimicrobici possono essere secreti in forma non metabolizzata nei rifiuti animali, e ovviamente non possono che contaminare sia il terreno che le acque freatiche. Queste sostanze agiscono sul sistema endocrino, aumentando il rischio di cancro al seno e alle ovaie nelle donne e quello di cancro ai testicoli, infertilità e scarso numero di spermatozoi negli uomini.
Tra chi abita vicino ad un allevamento c’è una più alta incidenza di problemi respiratori, nausea, stanchezza cronica, orecchie tappate, irritazione a occhi, naso e gola.
La maggioranza delle mucche da latte in America e in Europa non esce quasi mai all’aria aperta; ma anche quelle che vengono lasciate al pascolo causano un forte stress ambientale. Ogni capo di bestiame necessita di 12 ettari di terreno per il pascolo e produrrà circa 230 chili di carne. Se in solo mezzo ettaro piantassimo della lattuga, ne otterremmo quasi 30 tonnellate, con costi minimi (acqua ed energia messe insieme ammonterebbero a una spesa di 171 dollari).
ACQUA. L’allevamento di animali ne richiede un elevato consumo. Negli Stati Uniti l’80 percento del totale consumato viene erogato nell’agricoltura. Ci vogliono quasi 50mila litri d’acqua per produrre appena mezzo chilo di carne. Quasi 10 mila litri d’acqua per una sola bistecca. Poco più di 20 per produrre un cespo di lattuga. In altre parole, produrre proteine animali richiede un consumo d’acqua dieci volte superiore a quello necessario per ottenere un chilo di proteine cereali.
Gli allevamenti hanno anche effetto sulla qualità dell’acqua. I deflussi dei rifiuti chimici e animali di queste industrie sono responsabili dell’inquinamento di oltre 278mila chilometri di fiumi e torrenti.
L’Escherichia coli, un agente patogeno presente nelle feci degli animali d’allevamento, è riscontrabile anche nei corsi d’acqua. Nel Michigan, per esempio, un campione d’acqua prelevato nel 2001 da un torrente vicino a un allevamento di mucche conteneva un quantitativo 1.900 volte superiore allo standard nazionale.
L’EPA ha dichiarato che l’agricoltura è la principale fonte di inquinamento dei fiumi negli Stati Uniti. L’agricoltura genera agenti inquinanti che contribuiscono al 70 percento dei problemi relativi alla qualità dell’acqua.
Industrie e allevamenti sottraggono enormi quantitativi d’acqua, che viene destinata soprattutto agli animali. Ogni anno, in America, per irrigare i campi necessari alla produzione di cibo per il bestiame viene utilizzata la sconcertante quantità di 64.345 miliardi di litri d’acqua.
La situazione è destinata ad aggravarsi. Con il migliorare dello standard di vita nei paesi in via di sviluppo, crescerà anche la richiesta di carne e latticini. Secondo la FAO, il consumo annuo pro capite di carne è già raddoppiato dai 14 chili del 1980 ai 28 del 2002, e la produzione planetaria sarà più che raddoppiata entro il 2050.
Quasi il 40 percento del grano prodotto nel mondo viene dato in pasto al bestiame anziché essere destinato direttamente al consumo umano.
La grande maggioranza della soia coltivata è destinata all’alimentazione degli animali d’allevamento. Nel 2007 sono stati prodotti 222 milioni di tonnellate di soia. Di questi, circa 15 milioni sono stati consumati direttamente dagli uomini.
Se applicasse i principi della permacultura (lavorare con la natura e non contro di essa), lo stato della California potrebbe produrre frutta e verdura in quantità sufficiente a nutrire il mondo intero.
L’80 percento delle foreste thailandesi è sparito; l’85 percento di quelle filippine appartiene al passato; le grandi foreste del Borneo indonesiano spariranno entro il 2010. Ogni minuto vengono rase al suolo aree di terreno grandi quanto sette campi di football per creare spazio agli allevamenti di animali e ai campi necessari al loro (e non al nostro) nutrimento. Quasi il 70 percento della foresta amazzonica è stato convertito in pascolo per gli animali, e da questo non traggono giovamento né gli abitanti del posto, né gli animali, né il pianeta.
Al giorno d’oggi il numero di quanti patiscono la fame è più alto di tutta la storia dell’umanità: 854 milioni di persone, quasi un sesto dell’intera popolazione mondiale (e la cifra è assai maggiore se includiamo anche la sottoalimentazione). Allo stesso tempo gli scienziati rilevano che nel mondo si produce più cibo che mai, una quantità sufficiente a nutrire una popolazione doppia di quella planetaria. Il problema è che il cibo esistente viene consumato dalla metà ricca del pianeta, con l’effetto di renderla obesa.
Ogni anno nell’agricoltura mondiale vengono usati 3 milioni di tonnellate di pesticidi. Pesticidi ed erbicidi contengono più di 1600 agenti chimici, che «per la maggior parte non sono stati testati per rilevare eventuali effetti tossici sugli uomini».
Nel 2001 la Union of Concerned Scientists ha dichiarato che nei grandi allevamenti vengono usate decine di milioni di chili di antimicrobici. La nostra stima è che ogni anno gli allevatori statunitensi ne impieghino 11.158 tonnellate, in assenza di qualsiasi malattia e per scopi non terapeutici. Vale a dire otto volte la quantità utilizzata per gli esseri umani. Alla fine questo potrebbe portare alla nascita di «superbug» capaci di uccidere la gente e immuni ai nostri potentissimi farmaci.
Al Gore, Nobel per la pace del 2007, nel suo nuovo libro e sul suo sito web ha scritto un’unica frase: «Mangiate meno carne».
«Se ci sarà davvero il raddoppiamento previsto della produzione di carne mondiale (soprattutto nei paesi poveri in via di sviluppo), allora il metano e l’ossido nitroso continueranno a salire rapidamente, e la necessità di campi coltivabili farà incrementare la deforestazione. Queste tendenze non possono che esacerbare gli inevitabili effetti dei cambiamenti climatici, come inondazioni, siccità e mancati raccolti. È quasi sicuro che se l’attuale tendenza nell’allevamento di bestiame sarà confermata vi saranno conflitti per le risorse, scontri e sofferenze per uomini e animali» (Global Warming: Climate Change and Farm Animal Welfare, 2007).
Gli allevamenti industriali occupano il 70 percento di tutte le terre agricole e il 30 percento della superficie del pianeta.
Gli allevamenti emettono sotto forma di anidride carbonica il 18 percento dei gas responsabili dell’effetto serra collegati alle attività umane; in altre parole, sono causa del riscaldamento globale. Questa percentuale supera quella rappresentata dall’intero settore dei trasporti a livello mondiale, inclusi treni, navi, macchine e aerei. Gli allevamenti, ci avvisano le Nazioni Unite, producono il 37 percento di tutto il metano generato dalle attività umane, e il metano ha un effetto sul riscaldamento globale 23 volte superiore a quello dell’anidride carbonica, e il 65 percento dell’ossido nitroso, il cui effetto sul riscaldamento globale è ben 296 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Sempre gli allevamenti sono responsabili del 64 percento delle emissioni di ammoniaca, che contribuiscono pesantemente alle formazione di piogge acide. Muoiono le piante, gli animali e le persone.
Mangiare carne è come guidare un immenso SUV. Seguire una dieta vegetariana significa comprare una macchina di dimensioni ridotte o una berlina; e osservare una dieta vegana (senza uova e latticini) è come andare in bicicletta o a piedi. Se vogliamo invertire la tendenza del riscaldamento globale, dobbiamo abbandonare i SUV e gli stili alimentari a essi paragonabili.
Ogni pasto è come l’espressione di un voto. Possiamo fare la differenza con ogni boccone.
«L’appetito umano per la carne animale è l’impulso alla base di quasi tutte le principali categorie di danni ambientali che oggi minacciano il futuro dell’uomo: deforestazione, erosione, carenza di acqua, inquinamento idrico e atmosferico, mutamenti climatici, perdita della biodiversità, ingiustizia sociale, destabilizzazione delle comunità e diffusione delle malattie» (World Watch, luglio-agosto 2004).
CAPITOLO 2
LA VITA CHE FANNO
Molti studiosi considerano insensata la questione della felicità animale. Gli animali sono felici se possono vivere in conformità con la loro natura, esprimendo tutte le loro caratteristiche in un ambiente naturale.
Il Rapporto Brambell del 1965 riconosce specificamente che gli animali hanno sentimenti.
A quasi tutte le galline destinate alla produzione di uova viene scorciato il becco quando sono ancora pulcini. Il più delle volte l’operazione viene eseguita con un macchinario elettrico la cui lama rovente taglia metà del becco superiore e un terzo di quello inferiore. La ragione di questo intervento è che altrimenti, dato il sovraffollamento esistente nelle gabbie in cui vengono rinchiuse, le galline finirebbero con il beccarsi e ferirsi a vicenda. La procedura equivale a tagliare l’ultima falange delle dita a un essere umano.
In un anno una gallina allo stato brado deporrebbe solo una ventina di uova, invece delle 260 e più che è costretta a deporre in cattività.
In una gabbia ci sono dalle quattro alle dieci galline (e di solito le gabbie sono larghe 40 centimetri per 40) e ognuna ha uno spazio equivalente ai due terzi di un foglio A4; fino a sei gabbie sono impilate una sull’altra e in ogni capanno ci sono più di 100mila galline. Non possono allungare le ali, non hanno alcun trespolo, non hanno nidi, non hanno niente da raspare se non la rete metallica della gabbia (motivo per cui molte hanno le zampe rovinate). Non vedono mai la luce del sole perché non hanno mai accesso all’esterno.
Nell’Unione Europea (dove ci sono quasi altrettante galline che negli Stati Uniti, circa 300 milioni) le gabbie verranno gradualmente eliminate entro il 2012, mentre gli olandesi hanno annunciato di averne vietato l’uso a partire dal gennaio 2009, una misura senza precedenti. Tuttavia il 98 percento delle uova prodotte negli Stati Uniti proviene ancora oggi da galline allevate in gabbia.
Le galline allo stato brado possono raggiungere i dieci anni d’età. Ma la produttività delle galline in gabbia cala del 25 percento già dopo il primo anno. A quel punto diventano galline «esaurite», e prima ancora di compiere il secondo anno vengono macellate per diventare cibo per animali. Oppure vengono interrate vive perché nei mattatoi non le accettano più (sono troppo fragili e non vale la pena macellarle). I pulcini maschi, ad appena un giorno vengono gettati ancora vivi in un tritacarne ad alta velocità, oppure vengono infilati in buste di plastica dove muoiono per asfissia o disidratazione.
Nell’allevamento di galline ovaiole più grande di tutta la Nuova Zelanda (500.000 galline) hanno in mente di introdurre delle gabbie ”arredate”. Conterranno un nido per ogni gallina, una lettiera e trespoli di legno.
Ma una gabbia resta sempre una gabbia.
Dopo settantotto settimane la capacità di deporre almeno un uovo al giorno comincia a calare. Una formula matematica ha stabilito che è quello il momento ottimale per introdurre nuovi esemplari.
Quasi nessuno, davanti a un omelette, si ferma a chiedersi cosa sia un uovo. L’uovo è il guscio protettivo che circonda l’embrione della gallina.
Le mucche non producono latte se prima non partoriscono un vitello. Il latte è destinato al vitello e, come ogni altro mammifero, la mucca produce solo la quantità necessaria alla prole: pressappoco cinque litri al giorno. Il vitello viene separato dalla madre appena nato. La separazione dal vitello è l’evento più drammatico nella vita di questi animali.
Che succede ai vitelli? Dipende dal sesso del vitello.
Le femmine andranno quasi tutte a rinfoltire i ranghi della mandria da latte. In sostituzione del latte materno, a questi vitelli viene dato un surrogato commerciale fatto con siero, soia, grano, proteine dei globuli rossi e del plasma, grassi vegetali, vitamine, minerali e amminoacidi. Costa meno del latte di mucca, ma non è il cibo naturale dei vitelli. Ai quali vendono dati anche alimenti solidi, per accelerare lo sviluppo del rumine e svezzarli in appena quattro o cinque settimane. Cominciano a ricevere foraggio molto presto, di solito intorno all’ottava settimana. A diciotto settimane mangiano quanto gli esemplari adulti: una cosa del tutto innaturale.
I vitelli maschi nati in un allevamento caseario, tuttavia, non hanno futuro, tranne i rari esemplari che vengono tenuti per la riproduzione. Far crescere un esemplare maschio non è economicamente sensato. Quelli che non finiscono uccisi vengono tenuti abbastanza da poterne vendere le carni. I vitelli usati per la carne (circa un milione l’anno negli Stati Uniti) vivono dalle sedici alle diciotto settimane. Non appena separati dalle madri, vengono messi in gabbiette larghe circa mezzo metro, senza paglia, senza un giaciglio, a volte con una catena al collo che impedisce loro di girarsi, muoversi o anche solo stendersi comodamente. Il tasso di mortalità si aggira intorno al 20 percento. Incapaci di muoversi non possono sviluppare la normale muscolatura, e questo rende «tenera» la loro carne. Quando sul menu leggete «vitellino», sappiate che l’animale che intendete mangiare ha vissuto appena qualche giorno o magari solo qualche ora, di sicuro meno di un mese.
La grande maggioranza dei 225 milioni di mucche allevate per il latte in tutto il mondo vivono confinate nei capannoni, impastoiate in cubicoli dove sono costrette a restare in piedi e vengono alimentate e munte da sistemi automatici. Quelle tenute all’aperto senza neanche un filo d’erba se la passano anche peggio: non sono al riparo dalle intemperie e i loro terreni vengono puliti una o due volte l’anno, lasciandole nella fanghiglia formata dalla loro urina e dalle loro feci. Una macchina aspiratrice munge le mucche due o tre volte al giorno per circa otto minuti, con un ricavo di latte che va dai 34 ai 68 litri al giorno, circa dieci volte più di quanto ne avrebbe richiesto un vitello. A molte di queste mucche vengono iniettati ormoni della crescita per aumentare la produzione di latte.
Questo per dieci mesi. Poi, poiché come gli uomini e tutti gli altri mammiferi le mucche allattano solo dopo aver partorito, vengono fecondate artificialmente e il ciclo ricomincia.
(le mucche) Vengono nutrite con un pastone artificiale che contiene il prodotto della bollitura di sostanze animali, tra cui midollo osseo e letame.
Le mucche giungono rapidamente all’esaurimento, e arrivate al quarto anno di età vengono spedite al mattatoio. In condizioni naturali una mucca può vivere più di sedici anni.
Circa 100 milioni di maiali vengono uccisi ogni anno negli Stati Uniti e più di un miliardo in tutto il mondo per la loro carne. Il 97 percento di questi maiali vive nei grandi allevamenti.
Non appena la scrofa è incinta viene messa in una cassa di gestazione, o stallo della scrofa, una gabbia di metallo poco più grande dell’animale che contiene, larga appena mezzo metro, con il pavimento di metallo o cemento e nessun materiale che faccia da giaciglio.
In queste condizioni miserevoli, la scrofa impazzisce. Morde le sbarre o cerca di mangiarsi la coda, e scuote il capo per ore. Dopo quattro mesi, poco prima del parto, viene trasferita in una cassa da figliata. Non ha nessun contatto con i maialini se non per l’allattamento (fino a venti cuccioli per volta, grazie ai miracoli degli allevamenti moderni; in natura, una scrofa non partorisce più di quattro o cinque cuccioli). I maialini giacciono in un’area ridotta denominata «culla» dalla quale possono suggere il latte senza avere alcun tipo di contatto con lei. Vengono svezzati prima del dovuto (a circa tre settimane di vita). Ai cuccioli viene poi tagliata la coda, gli strappano i dentini da latte, i maschi vengono castrati, e il tutto senza anestesia. Lo stress è così grande che sempre più spesso le scrofe diventano anoressiche.
I maialini vengono poi messi in una gabbia di metallo o in un piccolo recinto, dove cercheranno di suggere il latte uno dall’altro. Dopo qualche altra settimana passano nei recinti di allevamento, dove vengono cresciuti con i metodi intensivi seguendo una dieta dall’alto contenuto proteico perché raggiungano il più velocemente possibile il «peso da macello»: il che avviene nell’arco di quattro mesi (allo stato brado, i maiali possono vivere più di dieci anni). La maggior parte dei maiali è destinata al macello entro i sei mesi di età.
Negli allevamenti la scrofa viene inseminata subito dopo il parto, e il ciclo riprende da capo. E questo per tre o quattro anni, finché lei, come le galline e le mucche, si esaurisce e finisce al mattatoio.
In rete c’è un sito sponsorizzato dalla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health chiamato «Meatless Mondays», lunedì senza carne, che chiede proprio questo, di non mangiare carne per un giorno alla settimana. E’ un buon inizio. Nel sito c’è scritto che possiamo ridurre del 15 percento il rischio di malattie cardiache, infarti, cancro e diabete se scegliamo di vivere ogni lunedì senza carne. Gli americani consumano circa 22mila animali nel corso della loro vita. Quindi, se aderissero all’iniziativa dei lunedì senza carne, probabilmente salverebbero la vita a oltre 3000 animali.
CAPITOLO 3
PESCARE NEL TORBIDO
L’uomo usa il mare come fonte di cibo. C’è sempre stata la convinzione che mari e oceani fossero così vasti, così profondi che esaurirli fosse impossibile.
Nei nostri oceani c’è sempre meno pesce. Ma la popolazione continua a crescere, e sempre più persone vogliono mangiare carne e pesce.
Gli scienziati calcolano che la quantità massima di pesci che possiamo sottrarre al mare è 100 milioni di tonnellate, ma noi l’abbiamo già superata: evidentemente crediamo che gli oceani siano inesauribili. Quando peschiamo troppi tonni (o pesci di qualsiasi altra specie) gli effetti sull’ecosistema possono essere gravi. Le catene alimentari sono delicate: se peschiamo troppi merluzzi e sgombri, il leone di mare di Steller che vive in Alaska non avrà di che nutrirsi.
Altrettanto pericoloso è il cosiddetto bycatch, una parola astuta che serve a mascherare il numero di pesci «non desiderati» presi nelle reti insieme a quelli cui si mira, e insieme a questi uccisi. Si calcola che il bycatch ammonti a circa un quarto del pescato globale. In esso sono incluse le migliaia di granchi, le stelle di mare, i piccoli merluzzi, gli squali e le centinaia di altre creature «indesiderate», tra le quali ci sono anche specie rare. Vengono tutti rigettati nell’oceano, morti. Le lenze lunghe catturano e uccidono anche testuggini, mammiferi e uccelli marini. Le senne a sacco catturano anche i delfini, che muoiono per asfissia.
I pescherecci moderni sono navi immense (lunghe quanto quattro campi da football) e spesso pesano più di 8000 tonnellate. In un’ora riescono a catturare fino a 200 tonnellate di pesce. Per ogni 3 tonnellate di pesce che arrivano sui mercati, muore oltre una tonnellata di altri animali marini.
I pesci d’allevamento stanno diventando una parte sempre più importante della dieta quotidiana. E’ il settore di produzione in più rapida crescita nel mondo. Secondo un rapporto della FAO, The State of World Aqua-culture – 2006, mentre nel 1980 l’acquacoltura produceva il 9 percento dei pesci consumati dall’uomo, nel 2006 la cifra è salita al 43 percento, e ci si aspetta che continui a crescere. Sostanzialmente dagli anni Ottanta c’è stato un incremento annuale dell’8 percento. Nel 2001 c’erano 40 milioni di tonnellate di pesci d’allevamento, quasi metà dell’intera produzione ittica mondiale. Tra il 1984 e il 1996 i pesci d’allevamento sono passati dal 13 al 35 percento della produzione ittica. L’industria diventa sempre più grande, con un fatturato annuo che ora raggiunge i 63 miliardi di dollari, e potrebbe anche arrivare il momento, in un futuro non troppo remoto, in cui gli oceani saranno vuoti e tutto il pesce mangiato verrà dall’acquacoltura.
I pesci maggiormente allevati sono i salmoni (con un rapporto di 85 a 1 rispetto al pescato) e le strutture maggiori si trovano in Cile, Norvegia, Scozia e Canada.
I gamberetti (oltre 450mila tonnellate importate ogni anno solo negli Stati Uniti) vengono allevati per lo più nelle zone costiere tropicali. In molti allevamenti sono diffusissimi diversi tipi di malattie. Non sempre le tonnellate di antibiotici impiegati sono sufficienti a prevenire l’insorgere dei virus. Alcuni virus sopravvivono anche al congelamento e si ripresentano nei piatti del consumatore. Il cloranfenicolo è un antibiotico vietato negli allevamenti di gamberetti statunitensi, ma viene usato in diversi altri paesi che esportano questo prodotto. E ci sono dei collegamenti tra il medicinale e i casi di anemia aplastica (una malattia del sangue che può portare alla morte).
Le anguille possono vivere per un secolo intero. La femmina partorisce solo una volta, spesso dopo il sessantesimo anno di età. Depone fino a 20 milioni di uova. Un maschio le feconda esternamente. Lei muore. Lui muore.
E’ molto difficile uccidere un’anguilla; perciò, quando sono pronte per essere sviscerate, molte di loro sono ancora vive. E persino dopo lo svisceramento «una significativa percentuale di questi animali sopravvive per altri 30 minuti».
Come in natura, negli allevamenti di salmone il ciclo comincia dalle uova. I salmoni pronti a deporle vengono catturati mentre tornano verso i torrenti nativi. Uno dei metodi più comuni consiste nell’anestetizzare la femmina immergendola in una soluzione chimica come la benzocaina. A quel punto viene uccisa e le uova asportate chirurgicamente. Il salmone maschio non è anestetizzato mentre viene massaggiato all’addome per la raccolta dello sperma (il cosiddetto «latte di pesce»). A volte viene ucciso subito dopo, ma spesso la procedura viene ripetuta almeno dieci volte prima che gli sia data la morte.
Le uova fecondate sono trasferite in recipienti con una base di terreno e pieni di acqua dolce, che faranno da incubatrici e verranno immersi in un canale con acqua corrente. Quando gli avannotti hanno raggiunto le dimensioni di un dito vengono trasferiti in vasche, gabbie, pozze o canali di acqua dolce. Quando il giovane salmone ha raggiunto i quindici centimetri, quindi dopo uno o due anni, viene così trasferito agli allevamenti marittimi. Il resto della vita lo trascorrerà in gabbia, sospeso nell’acqua di mare, dove questi pesci maestosi nati per le grandi distese oceaniche sono condannati a nuotare nelle loro feci e in una mistura tossica di elementi chimici, coloranti, pesticidi e pastoni fatti di pesci selvatici più piccoli.
Solitamente queste gabbie misurano tra i 12 e i 20 metri quadrati e possono essere profonde dai 5 ai 20. Ogni gabbia può contenere dai 5000 ai 70.000 salmoni. I pesci vi rimarranno rinchiusi finché non avranno raggiunto un peso che va da uno a cinque chili. Per arrivare alle dimensioni richieste devono essere sottoposti a nutrimento continuo. Poi vengono lasciati completamente a digiuno per circa dieci giorni, affinché le viscere si svuotino per ridurre il rischio di contaminare la carne durante la procedura di sventramento. I salmoni vengono riportati in superficie e comincia la mattanza. In alternativa i pesci vengono immersi in una vasca di acqua marina satura di anidride carbonica, dalla quale tentano disperatamente di fuggire (possono volerci più di nove minuti perché perdano i sensi e smettano di soffrire). I salmoni allo stato selvatico possono vivere fino a sedici anni.
I salmoni sono carnivori, e per gran parte del loro tempo danno la caccia ad altri pesci; ma nelle gabbie mangiano ciò che viene dato loro. A volte si tratta di pesce pescato dai fondali come bycatch, di cereali, di oli vegetali (che possono essere dannosi per chi è a rischio di infarto), altre volte di farina di grano, ma mai possono scegliersi il cibo da soli. In Cina, il fatto che l’acquacoltura sia un’attività caratterizzata da una elevata produzione fa sì che ai pesci vengano somministrati «scarti agricoli, letame di maiale e materiale fognario». Questo tipo di alimentazione è molto economico: alcune specie di pesci necessitano di un terzo del cibo che è necessario dare ai bovini per ottenere lo stesso quantitativo di «prodotto». L’acquacoltura, un’industria che a livello mondiale ha un fatturato di 30 miliardi di dollari l’anno, ha l’utile caratteristica di produrre proteine e riciclare rifiuti.
La David Suzuki Foundation nota che ogni giorno l’industria dell’acquacoltura nella Columbia Britannica scarica nell’oceano lo stesso quantitativo di materiale fognario di una città di mezzo milione di abitanti.
Nella maggior parte degli allevamenti di salmone ai pesci viene somministrata una tintura per ricreare il colorito roseo degli esemplari allo stato brado, un colorito che i salmoni ottengono mangiando gamberetti e altri crostacei.
I carotenoidi aggiunti alla dieta di questi pesci sono la astaxantina e la cantaxantina, che l’industria chimica ottiene in forma sintetica. Senza questi coloranti la carne dei salmoni d’allevamento avrebbe un poco appetitoso colorito grigiastro, simile al fango.
L’industria del settore ci assicura che non esistono effetti negativi. Nel 2003 la Commissione europea ha pubblicato un rapporto che elencava tutte le prove scientifiche dei collegamenti tra cantaxantina e danni alla retina nell’occhio umano.
Alcuni pesci che di stagione in stagione riescono a fuggire sono malati, e potrebbero contagiare i loro simili che vivono in libertà. Negli ultimi anni i contribuenti norvegesi hanno speso circa 75 milioni di euro per arginare la diffusione di malattie dai pesci d’allevamento a quelli selvatici.
Gli altri elementi chimici dall’effetto tossico notoriamente utilizzati nell’allevamento dei salmoni sono la cipermetrina, un veleno naturale cancerogeno che uccide le aragoste nello stadio larvale e può eliminare tutti i molluschi presenti in un raggio di sette miglia; il teflubenzurone, un pericoloso inquinante marino, che viene espulso dai salmoni tramite le feci per il 90 percento e ha effetti nocivi su granchi, gamberi e aragoste; l’ivermectina, una neurotossina che gli stessi produttori vietano di utilizzare in ambiente acquatico per i suoi devastanti effetti; il benzoato di emamectina, tossico per i pesci, uccelli e mammiferi; e il verde malachite, un elemento chimico cancerogeno.
La formalina è un disinfettante e conservante comunemente usato negli allevamenti ittici di tutto il mondo. Eppure la formalina è una soluzione composta per il 37 percento da gas di formaldeide dissolto in acqua e ha noti effetti cancerogeni sull’uomo.
La maggior parte delle persone che consumano pesce lo considerano un prodotto «salutare», credo sia utile informarle che rischiano invece di ingerire una pericolosa combinazione di tossine.
I cinesi producono oltre il 70 percento del pesce allevato in tutto il mondo.
Esistono allevamenti anche per altri tipi di pesce, tra cui i tonni pinna azzurra. A causa dell’elevata domanda di sushi e sashimi, questo animale maestoso che può vivere fino a quarant’anni, raggiungere i 3 metri di lunghezza e i 450 chili di peso, ha visto calare il proprio numero del 90 percento dagli anni Settanta a oggi.
Per nutrire questi giganti del mare viene usato un gran tonnellaggio di pesci piccoli, aspirati dal mare per ingrassare i tonni in cattività. Le reti usate a questo scopo uccidono un’infinità di altre creature marine (il bycatch).
L’allevamento delle trote è più comune. Vengono allevate in acqua dolce, in canali o laghetti rettangolari. Possono esserci fino a 30 giovani trote, lunghe più o meno 30 centimetri, nell’equivalente di una vasca da bagno.
Nel 2005 le Nazioni Unite stabilirono che in tutto il mondo quell’anno erano stati sottratti agli oceani circa 85 milioni di tonnellate di pesci; 100 milioni di squali e altre specie correlate erano stati massacrati per le pinne; circa 250mila testuggini erano rimaste impigliate nelle reti; e 300 mila albatri erano morti nelle reti a tramaglio, peraltro illegali.
CAPITOLO 4
LA NEGAZIONE DELLA REALTA’
«La maggior parte della gente non vuole farsi domande sulla carne. La gente non pensa a un animale quando usa la parola carne» (Bill Bufford, chef).
L’addomesticamento è stato «fondamentalmente una questione di controllo e sfruttamento di molte specie per il tornaconto di una sola: l’Homo sapiens» (Alfred Crosby, storico).
Nessuno scienziato serio ha ancora avanzato l’ipotesi che le piante provino dolore in modi e intensità anche solo paragonabili a quelli di uomini e animali. Non hanno un sistema nervoso centrale, non possono fuggire, non fanno parte di una comunità legata da rapporti di amicizia e di lealtà, e non esprimono visibilmente emozioni con le quali possiamo entrare in empatia.
Per Freud la «negazione» è generalmente intesa come un allontanamento inconscio dalla realtà. Vale a dire che non siamo consapevoli di non voler affrontare una determinata cosa.
La realtà del nostro cibo (vale a dire la realtà del fatto che esso in effetti ha un volto, è una «persona» nel senso più ampio) va rimossa nell’inconscio se vogliamo continuare a mangiare.
Nutrirsi di carne non è che un atto di cannibalismo esteso ad altre specie.
«I maiali non avevano fatto niente per meritarsi tutto ciò» (Upton Sinclair, La giungla).
Alcuni non collegano mai la presenza della carne nel proprio piatto alla morte di un animale. Il cibo ha ormai forme così camuffate che a volte ci vuole uno sforzo cosciente per restituire un volto alla pietanza di origine animale. Cambiamo l’aspetto alla carne che mangiamo, letteralmente (con le confezioni) o tramite accorgimenti linguistici: per esempio pancetta e salsicce invece di maiale, bistecca e hamburger invece di mucca, cacciagione invece di cervo e, il più famoso di tutti, pâtè de foie gras invece di fegato di oca malata.
«Think pig, not bacon».
Non tutti possono diventare attivisti per i diritti degli animali. E la scelta del vegetarismo potrebbe essere vista come la migliore forma di attivismo, con risultati concreti a ogni pasto.
CAPITOLO 5
UNA VITA DA VEGANO
Diventare vegetariani o addirittura vegani comporta dei benefici diretti per la vostra salute.
La dieta vegetariana mostra benefici per quel che riguarda il rischio di cancro e malattie cardio-coronariche, diabete, sclerosi multipla e altre malattie autoimmuni. Una dieta del genere è importante anche per la salute dei reni, per le ossa, gli occhi e il cervello.
Se una dieta a base vegetale può aiutare a prevenire certi tipi di cancro, le malattie di arterie e coronarie, la pressione alta, il diabete, l’obesità, i calcoli biliari, quelli ai reni, malattie renali e molte affezioni diffuse nel mondo occidentale, e poiché non ci sono effetti collaterali, se non una certa emarginazione sociale, non vedo motivo per cui chiunque non dovrebbe almeno desiderare di provare questa dieta.
E perché allora, potreste chiedervi, sono ancora poche le persone che hanno fatto la scelta vegana? E’ una buona domanda e trovare una risposta non è facile, ma sospetto che abbia a che fare con la disponibilità di informazioni.
Non esiste un pesticida «sicuro», perché per loro stessa natura questi prodotti vengono creati per uccidere.
QUESTI LI HO OMESSI DALLA PARTE PRECEDENTE, PERO’ MI SEMBRANO CARINI DA INSERIRE IN FRAMMENTI.
Uomini e topi hanno un DNA simile per il 97, 5 per cento, solo 1 punto percentuale in meno rispetto alla differenza tra uomo e scimpanzé.
Jeffrey Moussaieff Masson, Chi c’è nel tuo piatto, Cairo Editore, giugno 2009, p.23
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«Sebbene molte acque in bottiglia provengano dalla stessa fonte dell’acqua di rubinetto, sono misteriosamente etichettate come più pure. Inoltre le industrie dell’acqua in bottiglia la vendono a un prezzo migliaia di volte superiore al costo da loro sostenuto. Le bottiglie di plastica poi richiedono un enorme quantità di combustibile fossile per produzione e trasporto. Ogni anno vengono interrati miliardi di queste bottiglie» (sul sito del Polaris Institute).
Jeffrey Moussaieff Masson, Chi c’è nel tuo piatto, Cairo Editore, giugno 2009, p.54
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«E non ci permettono neppure di giungere al termine naturale di una vita già tanto infelice. Non mi lamento per me, che sono tra i fortunati: ho dodici anni e, com’è naturale nel corso della vita di un maiale, ho avuto più di quattrocento figli. Ma alla fine nessun animale sfugge al coltello crudele. Entro un anno ognuno di voi, giovani porci che ora sedete davanti a me, morirà tra alte grida sul ceppo. Tutti siamo destinati a quell’orrore. Mucche, maiali, galline, pecore. Tutti» (George Orwell, La fattoria degli animali).
Jeffrey Moussaieff Masson, Chi c’è nel tuo piatto, Cairo Editore, giugno 2009, p.59
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Il numero di acquari nelle case americane è enorme: ci sono circa 150 milioni di pesci (rispetto ai quasi 74 milioni di cani, 84 milioni di gatti e 16 milioni di uccelli), in più o meno 22 milioni di acquari.
Jeffrey Moussaieff Masson, Chi c’è nel tuo piatto, Cairo Editore, giugno 2009, p. 116
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