Franco Venturini, Corriere della sera 19/06/2009, 19 giugno 2009
I SOLDATI EUROPEI NELLO STATO PALESTINESE
Con una mano chiedere a Benjamin Netanyahu di fare più concessioni ai palestinesi, con l’altra prepararsi a mandare soldati di pace in uno Stato palestinese molto simile a quello delineato dal Premier israeliano.
L’esercizio non si presenta per nulla facile, ma i governi europei, dietro le quinte, hanno deciso di affrontarlo per non farsi cogliere impreparati.
Il primo a parlarne in pubblico è stato Franco Frattini, lunedì scorso a Lussemburgo: l’Unione Europea, ha detto, dovrà dare se necessario un contributo di sicurezza sul terreno. Parole sfuggite ai più, ma che rappresentano soltanto la punta emersa di una riflessione riservata che impegna tutti i principali governi della Ue. Il primo aspetto da considerare è la mancanza di entusiasmo che ha caratterizzato le reazioni europee al discorso programmatico di Netanyahu, inteso come una sorta di risposta a quello pronunciato da Obama al Cairo. stato compiuto, ha concesso la Ue, un primo passo verso la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, e questa circostanza non può che essere accolta favorevolmente. Ma – ecco il rovescio della medaglia – è ancora molto lungo il cammino che resta da percorrere: Netanyahu non ha concesso il blocco degli insediamenti in Cisgiordania, non ha riaperto i valichi per far entrare a Gaza generi di prima necessità, è stato vago sul concetto di smilitarizzazione del futuribile Stato palestinese e sulle garanzie internazionali necessarie per consentirne la nascita. In breve, caro Netanyahu, il tuo passo avanti non basta.
Discorso chiuso, allora? Niente affatto.
Le principali diplomazie europee ragionano come segue, anche se non lo ammettono. Le richieste enunciate da Netanyahu (che nei prossimi giorni sarà a Roma) sono posizioni di partenza di un negoziato con Washington che sarà lungo e complesso. Barack Obama non si accontenterà di così poco, ma nel contempo il presidente sa bene, soprattutto dopo l’esito delle elezioni iraniane e i tumulti che ancora scuotono Teheran, che per lui un qualche successo in Medio Oriente sta diventando una urgente necessità politica. Netanyahu non può permettersi di litigare con gli Usa, insomma, ma nemmeno gli Usa possono permettersi a lungo di litigare con Israele.
Conclusione logica: Netanyahu farà qualche ulteriore concessione e Obama chiuderà qualche occhio.
Uno Stato palestinese più o meno credibile ma comunque di rilevanza storica, così, potrebbe nascere nell’arco dei prossimi 6-12 mesi. Ponendo l’esigenza di fornire le garanzie di sicurezza che Netanyahu continuerà a reclamare e che gli israeliani, secondo un recentissimo sondaggio, approvano al 75 per cento. Ma è inesatto dire che la questione riguarderebbe tutti. Non potrebbe riguardare gli americani, per i quali l’invio di forze in Cisgiordania sarebbe ovviamente inopportuno e troppo pericoloso. Non potrebbe riguardare i britannici, per ovvie ragioni storiche.
Riguarderebbe, questo sì, altri europei: italiani, francesi, spagnoli, forse tedeschi nella componente navale. Per presidiare le frontiere assieme alla polizia palestinese, per pattugliare lo Stato appena nato, per svolgere soltanto un ruolo di monitoraggio degli accordi che ovviamente dovrebbero essere conclusi preventivamente? A queste domande oggi nessuno è in grado di dare risposta. Si può soltanto immaginare che la missione di pace possa somigliare a quella ancora in corso nel sud del Libano. Quando si trattò di deciderla furono Prodi e D’Alema a trascinare gli altri, francesi inclusi. Oggi il fatto che Frattini ne abbia seppur ermeticamente parlato può far pensare a uno scenario analogo. Ma prima bisogna che le parti percorrano quel «lungo cammino che resta».