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 2009  giugno 18 Giovedì calendario

LA SCHEDATURA USA DELL’IMMIGRATO DALì


Non fosse per i baffi a manubrio, marchio di fabbrica adottato negli anni Quaranta, assunto a simbolo di una genialità decantata in tutte le forme, si stenterebbe a riconoscere Salvador Dalì, pittore catalano, compagno di strada dei surrealisti con accentuata vocazione all’apostasia o all’appropriazione indebita. L’uomo dai capelli ben ravviati all’indietro che guarda dalla foto-tessera ha un’aria posata, banalmente ufficiale. L’occhio non rimanda i lampi spiritati che l’artista amava esibire. un maschio di una quarantina d’anni. Dimesso. Come dimesso, scialbo, è il colore della scheda. Su cui solo spicca in bei caratteri gotici la scritta «Permit to Reenter the United States» (permesso di rientrare negli Stati Uniti). Seguono i dati: nato l’11/05/04, capelli neri, occhi nocciola, nessun segno particolare. E l’altezza: 5 piedi e otto pollici, più o meno un metro e settantatré. Ecco, in questo dato che si rivelerà ondivago, lo spagnolo dall’aria quasi banale deve aver dissimulato il suo gusto della provocazione. O il desiderio di crescere, metaforicamente, all’infinito. Gli archivi dell’ufficio immigrazione, a cui il governo federale ha levato i sigilli, raccontano centinaia e centinaia di migliaia di storie. Tristi, a lieto fine, grottesche, tragiche. Storie di gente che fuggiva la fame. Le persecuzioni. Storie patetiche di spose di guerra che varcarono l’ocea-
no sognando un avvenire radioso. Tra le altre, raccontano anche una piccola, ma significativa, parte della storia di Salvador Domingo Jacinto Dalì Domènech, spagnolo di Figueres, marchese di Pùbol negli ultimi anni di vita. Che millantava ascendenze arabe per giustificare l’attrazione smodata per il lusso. Quando il pittore sbarca a New York e forni-
sce le sue generalità per la prima volta, nel 1934, è ancora un fervente surrealista. Con un importante distinguo. Gli altri guardano politicamente a sinistra; lui si barcamena. Ha preso con qualche esitazione le distanze da Hitler, ma non condannerà mai esplicitamente il fascismo. Ha già dipinto La persistenza della memoria, paesaggio con orologi liquefatti, e questo ne fa un personaggio ricercato. L’esperienza americana lo allontanerà dal grup-
po surrealista. E André Breton, vestale del movimento, conierà l’appellativo «Avida Dollars». Anagramma del nome, che in effetti individua una delle caratteristiche meno nobili del pittore. Con una pafrasi di Flaubert, «Il surrealismo sono io», Dalì si consolerà da bravo egomane.
Altro materiale all’ufficio immigrazione statunitense, lo fornirà nel 1940 quando arriva con la moglie Gala mentre l’Europa affronta la seconda guerra mondiale. Resteranno a New York otto anni. Poi riprenderanno la strada per la Catalogna. In questo viavai l’altezza del pittore, mentre il peso resta grosso modo stabile sulle 140 libbre (poco meno di settanta chili), fluttua. Volatile, duttile come i suoi orologi. Spazia da un iniziale 5 piedi e 4 pollici, a 5 e 7, 5 e 8, 5 e 10. In un arco che dal metro e sessantatré lo porta a sfiorare i 180 centimetri. Ma forse il surrealista reietto, più che con un normale centimetro, si misurava col centi-
metro di quella gloria a cui aveva consacrato tutto il suo essere.