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 2009  giugno 18 Giovedì calendario

UN’ALICE NEL PAESE DEGLI INGANNI PER LA RIVOLUZIONARIA FIABA IN 3D


Eccolo il film da non perdere, il capolavoro «nascosto» tra gli ulti­mi scampoli di stagione. E non fate­vi ingannare: sembra un film per bambini, realizzato con i pupazzi animati (ma è sconsigliato ai trop­po piccoli: meglio dagli otto, dieci anni in su), invece è un’opera straor­dinariamente adulta, che ribalta la struttura della fiaba per affrontare temi e problemi decisamente «da grandi», dal rapporto genitori-figli all’ingannevolezza dei desideri in­dotti.

Ridotta all’osso, la storia di Cora­line e la porta magica è una specie di rilettura morale di Alice nel pae­se delle meraviglie. Appena trasferi­tasi con i genitori in una curiosa ca­sa rosa, l’undicenne Coraline (il no­me nasce da un errore di battitura – Coraline invece che Caroline – che l’autore del libro all’origine del film, Neil Gaiman, non ha voluto correggere) cerca di passare le gior­nate come può, infastidendo uno strano gatto nero, litigando (cioè fa­cendo amicizia, come è tipico a quell’età) con il coetaneo Wybie, spiando i comportamenti dei vicini (le sfiorite ex attrici Spink e Forci­ble, l’eccentrico signor Bobinsky), ma soprattutto soffrendo per le di­sattenzioni dei genitori, troppo pre­si entrambi con il lavoro (sono sem­pre al computer per scrivere catalo­ghi di giardinaggio). A liberarla da questa grigia routine quotidiana ci penserà una porticina nascosta nel­la nuova casa, che permetterà a Co­raline di entrare in un «altro» mon­do.

E qui c’è la prima grande idea del film di Henry Selick, perché il mon­do fantastico in cui si addentra Co­raline non è quello mi­sterioso e divertente di Alice ma è pratica­mente identico a quel­lo reale, con un’«al­tra » mamma e un «al­tro » papà, un «altro» Wybie, un’«altra» si­gnorina Spink e così via. Una copia speculare dove tutto sembra più bello e accogliente, a cominciare dall’erba naturalmente «più ver­de », ma dove tutti hanno una carat­teristica inquietante: al posto degli occhi hanno due bottoni. E mentre all’inizio l’andirivieni tra i due mon­di è semplice e quasi piacevole (ba­sta addormentarsi nell’«altro» letto per svegliarsi in quello reale), a un certo momento l’«altra» mamma comincerà a pretendere sempre di più, fino a chiedere a Coraline di far­si sostituire gli occhi reali con due bottoni...

A questo punto il film, che ha in serbo ancora molte avventure e sor­prese che lasciamo alla curiosità dello spettatore, rive­la in pieno quello che ambisce essere, una favola morale capace di affrontare alcuni dei temi centrali della nostra cultura: l’appa­rire come categoria dominante del reale, il mito della forma fisica (la mamma vera ha un commovente rigonfiamento adipo­so intorno ai fianchi; l’«altra», quan­do rivela la sua vera anima, si mo­stra in tutta la sua funerea magrez­za), il disprezzo per la routine e la fatica quotidiana, l’attività artistica come sola realizzazione degna di un uomo (il padre vero fatica davan­ti al computer mentre l’«altro» si esibisce in meccaniche performan­ce alla tastiera di un pianoforte) e, più in generale, la voglia che molti sembrano avere di «chiuderci» gli occhi per mostrarci un mondo finta­mente colorato e allegro, fatto a lo­ro immagine e somiglianza.

Ma quello che a parole può ri­schiare lo schematismo (e assomi­gliare magari a una specie di «rivin­cita » dei genitori nerds), nel film di Selick assume forme straordinaria­mente ricche e complesse, che l’ani­mazione in stop motion permette di moltiplicare quasi all’infinito. I pupazzi del film, che figurativamen­te ricordano quelli di un film prece­dente del regista, Tim Burton’s Ni­ghtmare Before Christmas, si piega­no a ogni possibile sfumatura espressiva (Coraline riesce a mostra­re 16 diverse espressioni in soli 35 secondi) mentre le riprese in 3D per una volta sono davvero funzio­nali al tema prescelto. Basti vedere le scene in cui i fondali delle scene cambiano sotto i nostri occhi, pas­sando dalla bidimensionalità alla tridimensionalità, dal colore al bian­co e e nero o viceversa, non certo per meravigliare lo spettatore ma perché davvero necessarie al senso e all’evoluzione della storia (come il pavimento su cui si stanno affron­tando Coraline e l’«altra» madre, che si trasforma all’improvviso in una specie di rete/buco nero che tenta di imprigionare l’eroina).

In questo modo l’effetto un po’ straniante di una terza dimensione visiva diventa l’equivalente fisico della scelta (altrettanto disturban­te) di abbandonare la consequenzia­lità causa-effetto per far proseguire la narrazione secondo una logica puramente fantastica, dove i colpi di scena sono altrettanti ribaltamen­ti delle aspettative. In questo modo lo spettatore è costretto a entrare davvero in un mondo magico e non prevedibile, perché ogni tipo di «di­fesa » razionale finisce per perdere valore. E lo scontro finale tra Corali­ne e l’«altra» madre, dove ogni logi­ca si dissolve di fronte alle invenzio­ni della regia, diventa l’incubo di un mondo in cui davvero l’apparen­za è capace di nascondere ogni tipo di trappola.