Marcello Bussi, Milano Finanza 18/6/2009, 18 giugno 2009
Alla fine la sfida che conta è quella all’ultimo barile - La Guerra fredda? Una Sfida all’ultimo barile fra Russia e Stati Uniti, come dice il titolo del saggio di Stefano Casertano, edito da Francesco Brioschi
Alla fine la sfida che conta è quella all’ultimo barile - La Guerra fredda? Una Sfida all’ultimo barile fra Russia e Stati Uniti, come dice il titolo del saggio di Stefano Casertano, edito da Francesco Brioschi. Sfida che continua ancora oggi perché, insegna l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, «se controlli il petrolio controlli le nazioni». Scritto con stile coinvolgente, ricco di aneddoti gustosi e di documentazione inedita d’archivio, il saggio del giovane studioso (Casertano ha 31 anni, si è laureato in economia alla Luiss Guido Carli di Roma, ha conseguito un Master alla Columbia University di New York e tiene un corso di Economia e Politica delle Risorse Energetiche all’Università di Postdam in Germania) riscrive la storia della Guerra fredda attraverso nuove chiavi di lettura. Gli storici hanno sempre spiegato che a fare implodere l’Unione Sovietica, oltre all’inefficienza economica del sistema comunista, è stato il peso dei costi insostenibili della folle corsa agli armamenti, accelerata dal clamoroso bluff della Strategic Defense Initiative voluta da Ronald Reagan, le famose Guerre stellari che prevedevano lo spiegamento di uno scudo anti-missile sia a terra che nello spazio. Casertano evidenzia invece il ruolo fondamentale giocato dalla strategia occidentale di abbattere i prezzi del petrolio. «In breve tempo», spiega il giovane economista, «le quotazioni del barile crollarono da 35 a 9 dollari, con la conseguente diminuzione del 70% delle entrate dello Stato sovietico. Così, quando Michail Gorbaciov cercò di riformare il sistema con la perestrojka fallì miseramente per il semplice fatto che l’Unione Sovietica era già in bancarotta». A determinare il crollo dei prezzi del petrolio fu una congiunzione astrale irripetibile: alla base di tutto ci fu la nuova politica energetica di Reagan, che il primo giorno della sua presidenza fece rimuovere i controlli sui prezzi del greggio estratto negli Stati Uniti, che all’epoca erano ancora il secondo produttore mondiale, lanciando così una serie di produttori indipendenti e di nuove esplorazioni, che già nel 1982 portarono la produzione non Opec a superare quella dell’Opec. E quando il cartello decideva di tagliarla per sostenere i prezzi, interveniva Margaret Thatcher facendo pompare petrolio dai pozzi del Mare del Nord per allagare di greggio i mercati. Infine, l’Arabia Saudita in quell’epoca era particolarmente vicina agli Stati Uniti perché terrorizzata dall’espansionismo sovietico, che si era manifestato in tutta la sua aggressività con l’invasione dell’Afghanistan. Poiché i pozzi americani e britannici sono ormai in fase di esaurimento, oggi il gioco non è più replicabile. E sono diventati di fondamentale importanza i paesi dove si pensa che ci siano le maggiori riserve di oro nero. Da qui la nuova guerra fra Russia e Stati Uniti per accaparrarsi le risorse del Caspio. Non è un caso che Mosca abbia attaccato la Georgia nell’agosto dell’anno scorso, quando il prezzo del petrolio era 140 dollari, per poi sospendere ogni velleità espansionistica a seguito del crollo delle quotazioni intorno ai 40 dollari, successivo al fallimento di Lehman Brothers. Altro paese determinante nella sfida per il dominio dell’energia è l’Iran. Casertano sostiene che proprio qui sia cominciata la Guerra fredda, mentre è stato a partire dalla Rivoluzione Islamica del 1979 che gli Stati Uniti sono diventati il Grande Satana per buona parte della popolazione mediorientale. Oggi il ruolo di Teheran resta fondamentale perché nelle sue mani ci sono le seconde riserve mondiali di gas. Ma non bisogna farsi illusioni: per il giovane economista la lotta in corso fra Mahmoud Ahmadinejad e Hussein Moussavi è uno scontro tra fazioni della Repubblica Islamica che, chiunque sia il vincitore finale, non crollerà, rimanendo quindi ostile agli Stati Uniti. Casertano dedica molto spazio a Enrico Mattei, interpretato come personaggio chiave nei rapporti fra l’Occidente e il blocco sovietico. Contrariamente a certa pubblicistica, che insinua il sospetto di un ruolo degli Stati Uniti nella tragica morte del fondatore dell’Eni, Casertano sostiene invece che, nonostante l’Italia fosse diventata il primo importatore di petrolio sovietico, alla fine Washington capì che si poteva fidare di lui. Tanto che nell’estate del 1962 venne siglato un contratto fra la Esso italiana e l’Eni e programmato un viaggio negli Stati Uniti di Mattei per ritirare la laurea honoris causa a Berkeley e per un incontro personale con il presidente John Fitzgerald Kennedy, quando, scrive Casertano, «un incidente aereo non ancora del tutto chiaro, il 27 ottobre del 1962, lasciò l’Italia orfana di un grande padre industriale». Per capire meglio l’opera titanica di Mattei, l’autore di Sfida all’ultimo barile ricorda che Washington aveva stabilito che i paesi sconfitti non dovessero sviluppare aziende petrolifere nazionali. Oggi, infatti, Germania e Giappone non ne hanno una, mentre in Italia c’è l’Eni, che ha anche superato alcune delle ex Sette sorelle. Secondo Casertano, «Mattei riuscì a far passare il messaggio che l’Eni poteva rappresentare un alleato atlantico fondamentale per il controllo di territori dove l’America, da sola, avrebbe avuto difficoltà a essere accolta». Ma, soprattutto, il fondatore dell’Eni «spinse al limite le sue possibilità strategiche per rompere il monopolio petrolifero e portare il mercato verso la concorrenza, a tutti i livelli». Inoltre rese «accettabile il petrolio russo, e così facendo garantì all’Europa rifornimenti alternativi rispetto a quelli dei deserti mediorientali». Infine, «costrinse le major ad aprirsi a nuovi concorrenti, piccoli e grandi, primo fra tutti l’Eni». Si capisce perché si sente nell’aria la nostalgia per questo grande italiano.