G. Mic., il Giornale 16/06/2009, 16 giugno 2009
KHAMENEI, IL GRIGIO NUMERO UNO NELL’OMBRA
Compirà 70 anni fra poco più di un mese e potrà raccontare d’averne trascorsi almeno 30 ai vertici della Repubblica islamica. Se l’imam Khomeini ne è stato il fondatore, lui ne è diventato il padre padrone, il grande burattinaio, l’eminenza grigia capace di governare con pugno d’acciaio. Si chiama Alì Khamenei e di fronte a lui Mahmoud Ahmadinejad è solo un umile sottoposto, un piccolo e sconosciuto favorito costretto a baciargli la mano, come già fece nel 2005, dopo esser stato prescelto e immancabilmente eletto. L’estensione del suo potere è scritta nel suo titolo. La carica di Guida suprema, Velayat-e faqih in lingua farsi, riassume un’autorità molto più estesa di quella di un capo di Stato. Quelle due parole identificano una sorta d’ispirato interprete della legge religiosa e politica. Per dirla in soldoni, un Dio in terra.
Quando s’inventò quel titolo, inesistente nella tradizione religiosa sciita, l’erudito e carismatico imam Khomeini pensava più a sé che al proprio successore. Per quanto cresciuto nelle scuole religiose Alì Khamenei è sempre rimasto un grigio esponente di medio livello e non ha mai raggiunto il sospirato grado di ayatollah. Così, quando nel 1989 il Consiglio degli esperti lo nomina Suprema guida della repubblica islamica affidandogli la successione di Khomeini, i vertici religiosi di Qom devono regalargli il titolo di Grande Ayatollah. Le indiscusse capacità di Alì Khamenei sono però la devozione, l’intrigo e la pazienza. Entrato alla corte di Khomeini negli anni precedenti la rivoluzione, costruisce la propria fortuna nell’autunno del 1979 quando l’ayatollah Montazeri, vera eminenza religiosa ed erede designato dell’imam, commette l’errore di criticare le torture e le esecuzioni di massa usate per far piazza pulita degli oppositori. Estromesso dalla guida della grande preghiera del venerdì a Teheran, Montazeri si ritrova sostituito dal teologicamente più inesperto, ma politicamente assai più affidabile, Khamenei. A garantirgli autorevolezza contribuisce nei primi turbolenti anni della Repubblica islamica la bomba esplosagli al fianco durante una conferenza stampa che gli paralizza il braccio destro, ma lo trasforma anche in cholaaq ali gedaa, ovvero in autentico martire vivente.
Da quel momento quell’enigmatico signore dallo sguardo nascosto da un paio di scuri, spessi e sproporzionati occhiali anni Settanta inizia la sua scalata al potere. Il primo gradino conquistato nel 1981 è quello di presidente. Durante il suo doppio mandato prolungatosi fino al 1989 si ritrova a fare i conti con quello stesso Mir Hussein Moussavi costretto, un quarto di secolo dopo, a un’umiliante sconfitta. Quello scontro tra due cariche istituzionali confliggenti è probabilmente all’origine della decisione di Moussavi di trasformarsi decenni dopo nel capofila dell’opposizione. Quella stessa ruggine anni Ottanta induce la Suprema guida a negargli qualsiasi possibilità di vittoria. Quegli otto anni da presidente rappresentano l’indispensabile delfinato capace di trasformarlo, alla morte del mentore Khomeini, nel suo successore designato. Il difficile inizia allora. Arrivato tutto solo al potere Khamenei deve far i conti con le trame visibili e invisibili del presidente Alì Akbar Hashemi Rafsanjani, convinto da sempre di aver molti più titoli per ambire alla più importante carica del Paese. Così, mentre Rafsanjani si diverte a costruire un’alternativa riformista passando lo scettro presidenziale a Mohammad Khatami, Khamenei cerca di resistere conquistandosi la fiducia delle componenti più estremiste del regime. Giocando da autentico decisore nell’ombra costruisce un complesso sistema potere militare economico e concentra nelle proprie mani e in quelle dei più devoti capi pasdaran il controllo dell’industria petrolifera e lo sviluppo del nucleare. Un tragitto in cui convergono la ricchezza economica della nazione e l’ambizione di trasformarla nella principale grande potenza mediorientale.