Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  giugno 17 Mercoledì calendario

CORNO D’AFRICA POLVERIERA DEL MONDO


Siamo tutti preoccupati per l’Iran, e anche per la Corea del Nord, e per altri punti nevralgici di un mondo che non ha certo conosciuto la «fine della Storia», come si era ipotizzato, giusto vent’anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino. Ma dobbiamo pensare anche all’Africa o, più esattamente, al Corno d’Africa (Somalia, Eritrea, Etiopia), dove è in incubazione, anzi è già maturata, una crisi geopolitica e «georeligiosa» che potrebbe raggiungere un livello afghano o iracheno. In circostanze diverse, ma con analoghi, gravissimi, rischi.
L’Africa non è tutta uguale, ed è ovvio. Ci sono Paesi come l’Angola e altri, dotati di fonti energetiche e di materie prime, sui quali piovono investimenti stranieri, pur se dall’esito incerto. E c’è il Sud Africa, Paese leader, non certo privo di problemi interni, ma capace di organizzare e ospitare, da qui all’anno prossimo, eventi sportivi e mediatici d’interesse planetario. Ma poi c’è il Darfur, e c’è il Corno d’Africa, appunto, la cui situazione non è più un fatto locale, una tragedia locale, ma supera i confini del Continente, per porsi come un simbolo del «nuovo disordine mondiale».
Epicentro del sisma, politico e umanitario, è la Somalia, la cui capitale, Mogadiscio, è stata definita dalla rivista americana Foreign Policy «il posto più pericoloso al mondo». La Somalia è il modello perfetto di quello che i politologi chiamano lo «Stato fallito». E infatti è privo di qualsiasi parvenza di un’autorità legittima, in grado di esercitare un potere anche modesto. Anche se dal gennaio scorso esiste un governo provvisorio (il quindicesimo!), il Paese è in balia di bande irregolari, etnico-criminali o ideologico-religiose, nelle quali prevalgono, soprattutto nelle città e soprattutto nella capitale, gli «Shebaab», estremisti islamici legati o simpatizzanti per Al Qaeda, che arruolano e armano, col pretesto di sottrarli alla miseria, ragazzi di 14-15 anni. una guerra civile dai confini indefiniti, perché è mutevole anche la composizione delle bande, e la loro coesione interna. L’unica cosa certa è che il valore della vita umana è pari allo zero. E, come se non bastasse, le coste somale sono le basi di quell’incredibile fenomeno che è il ritorno della pirateria, anch’esso in una rissosa cogestione tra criminali e «alqaedisti».
La tragedia somala, almeno in quest’ultima versione, di caos incontrollabile, data dal 1991, dalla caduta del dittatore Siad Barre, succeduto al regime stalinista di Menghistu. A fermarla, non ci è riuscito nessuno. Né gli americani, né gli europei, né l’Onu. Ci ha provato nel 2006, con un successo iniziale, l’Etiopia, per due terzi cristiana, preoccupata dalla presa di potere, che per una volta era parsa stabile, pur nell’estremismo «talebano» delle regole, da parte delle Corti Islamiche. Ma, sconfitte le Corti, anche con l’appoggio aereo americano, è subito cominciata un’eterogenea ma efficace guerriglia contro il grande e odiato vicino, neanch’esso, del resto, un modello di legalità e di democrazia. E gli etiopi si sono ritirati, lasciando via libera al caos.
Ma Corno d’Africa vuol dire anche Eritrea, che con la Somalia ha in comune l’odio per l’Etiopia, dalla quale si è resa non da molto indipendente, e che di suo ha un regime che l’Economist ha definito vicino a quello della Corea del Nord. Senza ambizioni nucleari («almeno quello»), ma con un esercito esorbitante, che fornisce aiuti vari ai ribelli somali di ogni categoria, e forse anche ai pirati.
Insomma, un angolo di mondo niente male. Se in esso, com’è possibile, dovessero alla fine prevalere i meglio organizzati, cioè gli uomini di Al Qaeda, avremmo già disponibile, sulle cruciali rotte dell’Oceano Indiano, un’alternativa all’Afghanistan, ove ce ne fosse bisogno. Forse, al riguardo, si poteva fare una domanda a Gheddafi, presidente di quell’Unione africana che ha in Somalia 4000 uomini impotenti.