Alessandro Barbero, La stampa 17/06/2009, 17 giugno 2009
FINCHE’ C’E’ GUERRA C’E’ SPERANZA
E’ un bene che la guerra sia così terribile, altrimenti gli uomini la amerebbero troppo», diceva il generale sudista Robert Lee. Detta da un uomo che allo scoppio della guerra civile americana era un giovane e brillante ufficiale, con un magnifico paio di baffi neri e un sicuro avvenire, e quattro anni dopo era un vecchio spezzato, con i capelli e la barba precocemente incanutiti, la battuta è emblematica del fascino misterioso che la guerra ha sempre esercitato sull’uomo. In ogni epoca si è cercato di riflettere su di essa e di teorizzarne i principi, come dimostra la monumentale antologia appena uscita nei Millenni einaudiani (L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz, a cura di Gastone Breccia, pp. CLIX + 794).
I primi a scrivere di guerra sono stati i soliti cinesi; e prevedibilmente immergersi nei loro trattati significa confrontarsi con un pensiero diverso da quello occidentale, dove non domina l’applicazione geometrica della forza, ma lo yin e lo yang, e gli eserciti devono assumere, come in un romanzo di Camilleri, la forma dell’acqua. «Più si contrasta il nemico più lo si rafforza, mentre si potrebbe batterlo assecondandolo». Alimentandosi a questa tradizione i generali vietnamiti del Medioevo sbaragliarono i mongoli, e analizzarono i propri successi in trattati che in Occidente, com’è ovvio, nessuno si è curato di leggere al momento opportuno (ma li leggeva, eccome, il generale Giap).
In confronto alla sottigliezza del pensiero orientale, la nostra Antichità fa una povera figura. Il suo eroe è Alessandro, eterna metafora di un Occidente che punta tutto sull’organizzazione, la velocità e la forza, e cerca sempre e soltanto lo scontro, sicuro di spazzare via tutto ciò che si troverà di fronte. Pur col dovuto rispetto, i trattatisti del mondo antico appaiono spesso dei collezionisti di banalità, e suscitano qualche dubbio sull’intelligenza dei militari a cui si rivolgono (Vegezio: «Chi ripone la propria fiducia nella cavalleria deve cercare luoghi adatti ai cavalieri»). Va molto meglio con quell’inesauribile serbatoio di tesori che è la cultura bizantina, la cui sottovalutazione è stato uno degli errori più disastrosi dell’Occidente illuminista: con lo Strategikon dell’imperatore Maurizio (fine del VI secolo) l’arte della guerra diventa analisi psicologica ed etnografica, con regole diverse a seconda che si debbano combattere i raffinati persiani o quei poveracci analfabeti dei «popoli biondi», che sono poi i nostri antenati franchi e longobardi.
Ma è con l’Ancien régime che la riflessione sull’arte militare comincia ad essere praticata da pensatori originali che sono anche grandi scrittori. Una scoperta inattesa è Raimondo Montecuccoli, il generale italiano che combatté nel Seicento al servizio dell’impero asburgico, e che scrive molto meglio di tutti gli autori barocchi compresi nelle antologie scolastiche. I suoi Aforismi applicati alla guerra col Turco sono un testo straordinario, in cui un sano rispetto per le qualità dell’avversario si unisce alla vivacità dello stile e all’originalità delle idee. La prima virtù indispensabile al generale che debba comandare un esercito contro i turchi è la salute: «sanità vigorosa, abile a soffrir le fatiche e lo stemperato clima dell’Ungheria, caldissimo, e l’acque cattive, e l’accampar sotto le tende, e la continua inquietudine...» (Napoleone, com’è noto, concluderà invece che la prima qualità necessaria a un generale, contro chiunque debba combattere, è d’essere fortunato).
Un’altra scoperta è Maurizio di Sassonia, principe cosmopolita che fu considerato a lungo il più gran generale del Settecento, prima che la fama di Federico il Grande oscurasse la sua. Il maréchal de Saxe è un pensatore spregiudicato che non ha paura di dire verità sgradevoli: «La guerra è una scienza coperta di tenebre, nella cui oscurità non si procede con passo sicuro: alla base stanno l’abitudine e i pregiudizi. Tutte le scienze hanno principî e regole; la guerra no». Per capirci qualcosa, il meglio è di conoscere gli uomini, e saper prevedere i loro comportamenti: durante gli assedi, per esempio, è inutile ammassare moschettieri nelle trincee e ordinar loro di sparare tutta la notte contro le linee nemiche. I soldati, infatti, dopo un po’ cominciano a sparare in aria, «perché a furia di sparare la spalla duole, e poiché al buio l’ufficiale non può vederli, appoggiano l’estremità del fucile sulla palizzata, la palla va dove capita, e loro sono mezzo addormentati». Le uniche regole, insomma, sono quelle dettate dalla conoscenza delle reazioni umane: «gli uomini perdono sempre la testa quando capita loro qualcosa di inaspettato: è una regola generale in guerra e decide tutte le battaglie».
Ma negli scritti di Maurizio si trovano anche vignette raggelanti della guerra settecentesca, nient’affatto così frivola come a volte si crede. Alla battaglia di Belgrado, vinta nel 1717 dal principe Eugenio contro i turchi, due battaglioni imperiali sono stati travolti e fatti a pezzi dalla cavalleria nemica; appena la posizione è riconquistata, e mentre la battaglia dura ancora, il comandante del reggimento accorre, fa mettere delle sentinelle «ai quattro angoli dell’area occupata dai battaglioni massacrati», e raccogliere in grandi mucchi scarpe, cappelli e vestiario dei morti, tutta roba che costa e che verrà buona un’altra volta. Eserciti di massa, produzione di massa, e naturalmente anche società di massa, con la sua opinione pubblica aizzata dalla stampa: «I generali sono più da compiangere di quanto non si creda. Tutti li condannano senza ascoltarli. La stampa li espone al giudizio del pubblico più inetto», si lamenta Federico il Grande. Un altro trattatista prussiano, il von Berenhorst, osserva come fosse diventato più difficile fare la guerra da quando «era aumentato il numero dei lettori di giornali».
Cosa manca, perché il mondo d’oggi cominci a sembrarci molto simile a quello dei nostri antenati? Forse solo la ferocia delle guerre insurrezionali; ma il curatore, che al tema della guerriglia e della guerra partigiana riserva uno spazio speciale, provvede anche a questo antologizzando il trattato del piemontese Bianco di Saint-Jorioz, che nel 1830 esortava gli italiani a liberarsi dal dominio austriaco scatenando la «guerra nazionale d’insurrezione per bande»: guerra in cui, precisava compiaciuto, «sarà a chicchessia negato quartiere, e tosto che cadrà un nemico fra le mani delle bande, verrà senza indugio alcuno trucidato». Gli antichi romani lo facevano quasi sempre, e non ritenevano che valesse la pena di parlarne: noi lo facciamo solo in certi casi, e ci ragioniamo su. Che sia questa la vera differenza fra il mondo antico e il moderno?