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 2009  giugno 17 Mercoledì calendario

AYATOLLAH REFERENDUM D’AZZARDO


Quello che rischia di travolgere, piuttosto imprevedibilmente, il regime degli ayatollah è l’azzardo politico di Ahmadinejad, che ha trasformato le elezioni presidenziali da un referendum sul suo operato in un referendum sulla stessa Repubblica islamica. A mano a mano che la scadenza elettorale si avvicinava, cresceva il timore nel suo entourage.
Cresceva il timore che il sostegno al presidente non fosse tale da garantirgli una vittoria certa, neppure al ballottaggio. Ha così capito che, in un sistema come quello iraniano (una pseudodemocrazia nella quale l’unico spazio di espressione del dissenso è paradossalmente quello delle elezioni tra candidati selezionati con cura dal regime), se voleva vincere doveva cambiare l’interlocutore e «il quesito referendario». Non rivolgersi al popolo per guadagnarne il consenso, ma invece far capire alla «guida suprema» che in gioco non c’era solo la sorte politica del presidente, ma quella del sistema di cui Khamenei era il massimo esponente. Per riuscirci non ha esitato ad attaccare con durezza crescente il candidato Mousavi, quasi spintonandolo nel ruolo di leader non solo moderato, ma anche riformatore e persino liberale. Così facendo ne ha gonfiato il sostegno presso i giovani, le donne istruite, la borghesia e gli intellettuali: cioè tutti gli insofferenti del corrotto e dispotico regime che da trent’anni martirizza il civile popolo iraniano.
L’appoggio a Mousavi cresceva così giorno per giorno, ma insieme con il consenso aumentava il grado di pericolosità della sua vittoria per il regime stesso. Probabilmente, proprio l’ultima grande manifestazione pre-elettorale, così affollata di giovani festosi e colmi di speranza, come non se ne vedevano dai tempi dell’elezione di Khatami, ha convinto il titubante Khamenei a rompere gli indugi e a sottoscrivere la nuova alleanza tra i conservatori, i cui interessi egli rappresenta, e i radicali (armati) di Ahmadinejad.
In quel momento, accettando di avallare brogli elettorali probabilmente giganteschi, Khamenei ha sancito la fine del regime inventato da Khomeini. L’esperimento della Repubblica islamica era stato sottoposto a tensioni istituzionali di senso opposto fin dal crepuscolo della vita di Khomeini. Due tentativi di riformarlo in senso più liberale sono falliti. Il primo, abortito ancora prima di iniziare, ad opera del delfino di Khomeini, l’ayatollah Montazeri, imprigionato poco prima di succedere al suo mentore morente. Il secondo, più ambiguo, ad opera di Khatami, bloccato da Khamenei. Da quando è stato eletto presidente, Ahmadinejad non ha mai fatto mistero della sua insofferenza per il ruolo dell’alto clero e della sua volontà di riportare il regime alla «purezza» della fase rivoluzionaria, da perseguire riducendo il ruolo del clero. Il paradosso è che l’operazione gli potrebbe riuscire, proprio grazie all’aiuto del supremo garante di quell’ordine che lui vuole radicalmente trasformare. Se Ahmadinejad prevarrà, se riuscirà a reprimere una rivolta che sembra sempre più una «quasi rivoluzione», il regime che sorgerà sarà cosa sostanzialmente diversa da quello fin qui conosciuto. Prestandosi platealmente a violare quelle regole (per quanto già non eque) per difendere le quali esiste il principio del «governo dei giureconsulti», Khamenei ha minato la base stessa della legittimità dal doppio registro (elettorale e «sapienziale»), uno a sostegno ma anche a moderatore dell’altro, sulla quale si basa la formula inventata da Khomeini.
 stata l’ultima volta che le parole, per quanto non amate, son potute uscire dalla sua bocca godendo ancora dell’aura incontestabile (se non incontestata) del sapere. Ma al suono di quel che esse sostenevano, l’autorità si è dissolta, mostrando il volto nudo del potere.
Era dai tempi della rivoluzione che abbatté lo scià Reza Pahlevi, che a Teheran non si vedevano simili folle oceaniche, così determinate a sfidare i divieti delle autorità e le pallottole dei basiji. Il regime ha già chiarito che non esiterà a uccidere pur di sopravvivere. Farebbe però bene a ricordare che il culto del martirio fa parte della cultura sciita duodecimana. E che proprio nel 1979 ogni funerale si trasformò in una manifestazione ancora più rabbiosa e gigantesca. Quel che oggi manca ai rivoltosi/rivoluzionari è un leader, perché Mousavi non ha certo la tempra di un Khomeini: ma una leadership potrebbe emergere proprio dai moti di piazza. Senza dimenticare che il gruppo dirigente del regime inizia a manifestare crepe, e alcuni dei suoi esponenti più scaltri (Rafsanjani? Larijani?) potrebbero essere tentati da una soluzione alla «romena» (ricordate la fine di Ceausescu nel 1989?), pur di preservare le proprie rendite politiche ed economiche./