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 2009  giugno 17 Mercoledì calendario

TRUFFAUT L’INFANZIA RUBATA


A mia madre dovevo far dimenticare che esistevo: la Francia non ama i bambini
Truffaut, lei è nato a Parigi il 6 febbra­io 1932, da padre architetto e madre segretaria dell’Illustration, ma i pri­mi anni della sua vita dove li ha tra­scorsi?
Oh! mi pare, con la balia, a destra e a sinistra, dalle nonne, una volta da quella materna, un’al­tra da quella paterna.

Crede che questo abbia segnato i suoi pri­mi anni?
Credo di sì. Soprattutto la nonna materna, che amava molto i libri. Mi portava da un libra­io dove faceva scambi di volumi e discuteva con lui dei romanzi appena usciti.

Solitario e molto chiuso: è l’immagine che si ha di lei. perché è stato obbligato a innu­merevoli «va e vieni» e ha dovuto attaccarsi a persone differenti fin dalla prima età?
Certo, e poi mia madre non sopportava i ru­mori. O meglio, dovrei dire, per essere più preci­si: non mi sopportava. In ogni caso, dovevo far­mi dimenticare e restarmene su una sedia a leg­gere. Non avevo il diritto di giocare né di far ru­more: dovevo far dimenticare che esistevo.

E lei come reagiva?
Mah, sa, ero molto sottomesso, come quasi sempre lo sono i bambini.

Aveva amici, compagni di cui si ricorda?
Non nella prima infanzia, no, i primi amici... durante la guerra, attorno agli 11-12 anni, più o meno.

 andato a scuola a Parigi?
Abitavo dalle parti di Pigalle, in rue Hen­ri- Monnier, quel quartiere un po’ sotto Mont­martre e Pigalle, e sono andato alle materne di rue Clauzel, poi al Liceo Rollin, per i primi anni. E dopo, svariate scuole comunali, con pessime pagelle, assai tempestose dai 12-13 anni in su: bocciato, insomma, e frequenti cambi d’istitu­to.

Ma quando andava a scuola i primi anni, aveva il suo gruppo o era solo in classe?
Non riesco a ricordarmi di aver fatto parte d’un qualche gruppo. Credo di esserne rimasto sempre fuori, presto isolato per i miei gusti, per varie ragioni. Se dopo ho avuto uno o due amici è stato grazie al cinema, cioè perché li portavo al cinema, ma niente compagni di gioco, nes­sun gruppo. Non facevo parte nemmeno dei bambini che giocavano per strada, poiché non ne avevo il diritto.

Lei dice che non sa perché provasse un inte­resse così speciale e precoce per il cinema. Non pensa che fosse proprio il modo di rifug­gire da quell’ambiente che la rifiutava e che lei voleva a sua volta rifiutare?
Sì, era il «continua» dei libri. Un’evasione piuttosto bella, meglio, piuttosto forte, me la procuravano i romanzi. Leggevo romanzi per bambini ma anche i romanzi che leggeva mia madre, dunque di nascosto. Dopo ci sono stati i film. E i film rappresentavano probabilmente un’evasione ancora più forte. Come per i roman­zi, mi son messo a vedere i film di nascosto. Per esempio, i miei genitori uscivano per andare a teatro. Dieci minuti dopo, sicuro che fossero partiti, io correvo al cinema, con un senso d’an­goscia spaventoso per gli orari: avevo sempre paura che rientrassero prima di me. Perciò la se­conda metà del film era rovinata: succedeva per­sino che la paura mi facesse partire prima della fine del film, perché al loro rientro i miei genito­ri dovevano trovarmi a letto. Conservo di quel­l’epoca una grande angoscia. I film sono legati a un senso d’angoscia, a un’idea di clandestinità, la stessa che accompagnava la lettura dei libri: ma per i film era anche peggio. Succedeva a vol­te che mi portassero a vedere un film che avevo già visto. Non potevo dirlo e credo che questo mi abbia indotto il piacere di rivedere un’enor­mità di volte sempre gli stessi film.

Dice che l’età critica è a 13 anni anziché a 16. Si tende a credere che a 16 anni esplodano i problemi dell’adolescente o del bambino, mentre per lei è a 13 anni...
Sì, perché a 16 anni lavoravo già. Ho comin­ciato a 14 anni e mezzo, di fatto sono entrato nella vita adulta più presto degli altri. per que­sto che, anche nel cinema, ho l’impressione d’es­sere un vecchio cineasta, di avere mestiere per­ché mi sembra di aver esordito prima del mio reale esordio: e infatti mi sono interessato mol­to presto a tutto. Dunque, effettivamente, per me i 13 anni sono il 1945, la fine della guerra, il cambiamento...comunque, un cambiamento che non cambiava granché.

Jean-Pierre Léaud è Antoine Doinel, è tutto il ciclo di Doinel. Come ha messo al mondo questa specie di figlio?
Quando sono stato sul punto di girare Les 400 coups, ho fatto pubblicare un annuncio sul giornale dicendo che stavo per girare un film e che cercavo un ragazzo di 13 anni: si sono pre­sentati una sessantina di ragazzi. Molti di loro hanno recitato nel film, poiché le scene in clas­se permettevano di inserire una trentina di bam­bini: non c’era dunque quell’aspetto assai crude­le dell’eliminazione. Ai bambini non dicevo che stavo cercando il protagonista, ma li sottopone­vo a una specie d’intervista tutti i giovedì: li fa­cevo tornare da un giovedì all’altro. Il trionfato­re di questi provini è stato Jean-Pierre Léaud, perché era nettamente il più forte.

(Traduzione di Mario Serenellini)
Bene, ho voglia di rivolgerle quella doman­da che si sarà sentita ripetere mille volte: Les 400 coups è davvero autobiografico?
Sì, è in gran parte autobiografico, tenuto con­to del fatto che dà l’impressione di svolgersi nel 1958, perché, per un’opera prima, non avrei mai pensato di girare un film in costume e l’Oc­cupazione era ancora troppo vicina. Oggi sento che potrei fare un film sulla storia d’un ragazzi­no, d’un adolescente, durante la guerra: ci sareb­bero numerosi fatti legati al mercato nero, ai ri­fugi, ai bombardamenti su Parigi, e avrei mate­ria abbondante. Ma le avventure che attraversa Antoine Doinel in Les 400 coups sono le mie: e, devo dire, mai esagerate, anzi spesso addolcite, per ragioni di plausibilità e verosimiglianza, per­ché, in questo campo, quando si parla di un bambino infelice, si ha una grande responsabili­tà e si corre pure il rischio d’apparire irreali o troppo straordinari. Perciò il film non esagera mai.

Ma crede che nella realtà i rapporti genito­ri- figli siano sempre tanto difficili?
Si sa, ho avuto un’infanzia tutt’altro che allegra, non quel­la d’un bimbo martire o d’un fi­glio picchiato, ma quella di un bambino non amato o ignora­to: è già una bella scocciatura. Credo tuttavia che in Francia sia ordinaria amministrazione. Sento un amore per l’infanzia molto più grande, se mai, in Paesi molto poveri, a esempio in Turchia. Me ne rendo conto d’altra parte dopo la distribu­zione di Les 400 coups, che è stato un film abbastanza popo­lare all’epoca, ma non ha in­contrato dappertutto lo stesso successo. A esempio, i giappo­nesi l’hanno rifiutato perché il loro amore per l’infanzia è tan­to grande da rendere inammis­sibile il personaggio della ma­dre che non ama il figlio. E ho notato la stessa reazione in Pae­si sottosviluppati, come il Medio Oriente, dove il bambino è un reuccio, un piccolo principe.

La interessano davvero i problemi dell’in­fanzia?
Sì, perché tutto parte da lì. molto difficile sensibilizzarmi alle storie di adulti, perché mi dico sempre che gli adulti possono oltrepassare un confine, possono forse cambiare Paese. Inve­ce, mi sento vicino alle sofferenze dei bambini, perché sino ai 14 anni subiscono senza poter fa­re nulla...Un bambino infelice resta chiuso in ca­sa, non può andarsene, mentre un adulto infeli­ce può partire.