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 2009  giugno 17 Mercoledì calendario

RESTITUISCE ALLO YAD VASHEM IL TESORO NASCOSTO PER 60 ANNI


«E’ stato il regista Spielberg a consigliarmi di farlo»

GERUSALEMME – Dimentica, Meyer. Dimen­tica d’essere entrato nelle camere del Zyklon B e d’aver visto «anche una bambina nuda, una vol­ta, ed era attaccata al seno di sua mamma nuda: erano gassate tutt’e due, avevano gli occhi vuo­ti ». No, Meyer, non dimenticare nulla: il tuo gior­no della memoria è una nottata che non passa mai, conserva tutto perché non c’è photoshop che possa sbiadire quelle immagini stampate in testa. «Ho vissuto più di sessant’anni senza sape­re se fosse meglio ricordare o resettare tutto» di­ce Meyer Hack. E non sapendo bene che cosa fa­re, lui che aveva visto prima Auschwitz e poi Da­chau, ha sempre creduto che il sistema migliore fosse quello della scatola di ferro: «Ho preso il piccolo tesoro che ero riuscito a salvare, da quei poveracci, e non l’ho mai più voluto vedere né toccare. L’ho chiuso in questa cassetta. E la cas­setta l’ho nascosta in un posto che sapevo solo io. rimasto tutto lì. Ho aspettato che arrivasse il momento giusto per tirare fuori la scatola. E donarla al Museo dell’Olocausto. Questo è il mo­mento ».

 il piccolo tesoro dei morti di Auschwitz. Dia­manti, orologi, catenine, anelli, orecchini, porta­soldi. L’oro dell’Olocausto. Pezzi di vita strappa­ti al camino e che nemmeno Ahmadinejad po­trebbe negare, guardandoli. Non valgono gran­ché, al fixing. Però Meyer Hack s’è messo la cra­vatta, per mostrarli al direttore dello Yad Vashem di Gerusalemme e li ha poggiati su por­tagioie di velluto rosso. Come si fa per le cose d’un prezzo inestimabile. D’un costo immenso.

Meyer oggi vive a Boston ed è un lucido signo­re di 95 anni, cardiologo in pensione, ebreo po­lacco. Quando finì ad Auschwitz e perse mam­ma e tre fratelli, se la cavò perché s’era inventa­to d’essere un sarto. Assegnato al più fortunato e tremendo dei lavori possibili, là dentro: spo­gliare i morituri, dividere le stoffe, farne coperte o chissà che altro. «Molti nascondevano nelle fo­dere i gioielli, le cose preziose. Ma quelle non volevo consegnarle ai nazisti: le nascondevo nei calzini, sotto i mattoni. Magari un giorno avrei potuto ridarle ai parenti». Meyer accumulò. Na­scose. E riuscì a portare il piccolo tesoro anche nel secondo lager, Dachau, dove fu deportato prima che arrivassero i sovietici. Salvato, riemer­so, per qualche anno ci ha provato: «Volevo tro­vare qualcuno cui ridare quella roba. Ma era im­possibile. E ogni volta che l’avevo per le mani, stavo male per giorni». Meglio chiudere, allora, chiave e mettere via: «Anna Frank ha scritto un diario. Io mi sono tenuto tutto nel cuore. Per ses­sant’anni non ho voluto vedere più nulla».

A Yad Vashem ci sono più di ventimila ogget­ti della Shoah, recuperati dai campi di tutt’Euro­pa. Ma l’oro, le pietre, i preziosi sono una rarità. «Ogni tanto ci segnalano qualche gioiello ’so­spetto’ battuto alle aste internazionali – dice Yehudit Shenhav, curatore del museo – ma sen­za foto o solide testimonianze è difficile provare la provenienza. Questo vale per le cose rubate nei rastrellamenti. un caso unico, che ricordi del genere siano usciti addirittura da Au­schwitz ». Tre anni fa, Meyer ha visto il sito del museo. Ha pensato all’età, ripensato a quella sca­tola di ferro che stava là. E ne ha parlato con gli amici migliori. Un rabbino che ha la metà dei suoi anni e l’ha accompagnato a Gerusalemme. E poi Steven Spielberg, il regista: «Esci e raccon­ta al mondo questa storia» gli ha suggerito l’uo­mo della Schindler’s List. Il vecchio cardiologo l’ha fatto: «Avevo bisogno di dare un posto defi­nitivo a questi ricordi. Prima di darne uno al mio corpo».