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 2009  giugno 17 Mercoledì calendario

LA STORIA DI TELECOM



Preistoria -
L’IRI, Istituto per la ricostruzione industriale, costituito nel 1933 per fronteggiare la crisi del sistema industriale e bancario italiano.

«Il vero italiano vede con occhiali Salmoiraghi (Iri), si serve di elettricità della Finelettrica (Iri), ascolta programmi della Rai con dischi Cetra e pubblicità Sipra (Iri) telefona con l’Iri, affida i risparmi alle banche dell’Iri, legge giornali sostenuti dalla pubblicità Iri…» (Sergio Ricossa, Come si manda in rovina un paese, Rizzoli, 1996)

Nel 1933 l’IRI acquisisce la SIP (Società Idroelettrica Piemontese), che incorporava la STIPEL, la TELVE e la TIMO, le prime società ad offrire il servizio di telefonia in Italia. Queste tre vengono scorporate il 21 ottobre 1933 dal gruppo SIP, ed entrano nella STET (Società Torinese per l’Esercizio Telefonico), la finanziaria del settore telefonico fondata ad hoc dall’IRI. Nel 1957 la STET acquisisce anche le società TETI e SET.

Nel 1964, a seguito della nazionalizzazione del settore elettrico, la SIP acquisisce ingenti disponibilità finanziarie (derivate dalla cessione all’ENEL degli impianti per la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica). Viene così decisa la fusione per incorporazione delle società STIPEL, TELVE, TIMO, TETI e SET nella SIP, che assume la nuova denominazione di SIP - Società Italiana per l’Esercizio Telefonico (che in seguito cambierà denominazione in SIP - Società Italiana per l’Esercizio delle Telecomunicazioni e ancora più tardi verrà fusa in Telecom Italia assieme ad altre quattro società*). La SIP - Società Idroelettrica Piemontese cessa quindi di esistere.


Storia -
Telecom Italia S.p.A., fondata nel 1964 come SIP, una bella mucca da mungere. E fin dagli anni ”60, i governi (attraverso l’IRI) hanno fatto a chi strizza più forte: «Tra imposte e canone annuo di concessione corrisposti allo stato, tra appalti per decine di miliardi di euro, assunzioni, spese pubblicitarie, di pubbliche relazioni, di consulenza, nei bilanci della Telecom è stato annegato di tutto» (G. Oddo e G. Pons, L’affare Telecom, Sperling e Kupfer 2006)

Formalmente, Telecom nasce il 27 luglio 1994, a seguito del riassetto industriale che vede la fusione delle cinque società del gruppo IRI-STET che operavano nel settore telefonico: *SIP, Iritel, Italcable, Telespazio e SIRM.

Nel 1995 nasce il settore più redditizio, TIM (Telecom Italia mobile), con scissione parziale dalla casa madre: il capitale è controllato per il 63,01% da STET.

Per favorire la privatizzazione, obiettivo primario della nascita di Telecom Italia, nel 1997 la STET e Telecom Italia vengono fuse. Il nome rimane Telecom Italia. A questo punto questa società racchiude l’intera industria delle telecomunicazioni italiana. un immane colosso che si appresta ad entrare in borsa. Per diventare, nelle intenzioni di Romano Prodi (allora primo ministro) la prima vera, grande public company italiana.

Romano Prodi, presidente dell’IRI dal 1982 al 1989, il primo economista a ricoprire quel ruolo. Il ”privatizzatore”.

Con Guido Rossi presidente della compagnia, il 20 ottobre 1997 viene promossa la privatizzazione di Telecom Italia. L’idea è quella di attuare il modello americano: un cosiddetto nocciolo duro, che riunisca un gruppo di azionisti che siano in grado di farsi carico della gestione della società, e tutto il resto delle azioni sparse come flottante, fra una miriade di piccoli risparmiatori.

A conclusione dell’OPV (Offerta pubblica di vendita), le azioni vengono collocate a 10.902 lire; il 27 ottobre 1997 Telecom Italia debutta nella Borsa Italiana. A causa della scarsa risposta dei grandi investitori italiani il nocciolo duro non è in realtà tale: il gruppo con capofila gli Agnelli riunisce solo il 6,62% delle azioni e si rivela molto fragile.

Il nocciolo duro creato dal primo governo Prodi nel 1997, ad opera dell’allora ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, e dell’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, oggi governatore di Bankitalia, si rivelò un fallimento perché mancava al suo interno un socio industriale che prendesse le redini dell’azienda. O per meglio dire, il socio industriale c’era ed era una grande multinazionale del settore, l’At&t, ma risultava sgradito ai componenti del nocciolo duro (banche e assicurazioni) e fra questi in modo particolare all’Ifil, della famiglia Agnelli, che pretendeva di essere padrone assoluto del gruppo telefonico pur avendovi investito all’incirca un centinaio di miliardi di lire, ovvero una piccola frazione del valore di Borsa della Telecom. (Giuseppe Oddo, dal suo blog Finanza e Potere)


Colaninno e l’ ”OPA del secolo” -
La privatizzazione così realizzata, con il nocciolo duro che non era in grado di garantire nè la stabilità necessaria ad affrontare i venti di borsa, nè tanto meno l’italianità della Telecom, mostrò ben presto tutti i suoi punti deboli. La società, sganciata dall’ombrello del Tesoro, era diventata contendibile. Per difenderne l’italianità, venne autorizzata dal governo D’Alema una scalata ostile ”all’italiana”.

1999, la scalata del secolo: 180 imprenditori, capitanati da Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti (la cosiddetta ”razza padana”), si spartiscono la Hopa, che controllava la Bell, che controllava la Olivetti, che controllava la Tecnost, che aveva la maggioranza assoluta della Telecom. Tutta la scalata viene finanziata a debito (in inglese, leveraged buy-out). Tutto il debito viene fatto gravare sulla Olivetti. Questa condizione affligge Telecom ancora oggi, ed è il principale motivo della reticenza ad investire in innovazione che caratterizza il gruppo.
L’opa viene realizzata mediante le cosiddette ”scatole cinesi”: un sistema di società a cascata che consente ad un unico soggetto di aquisire il controllo di un grande gruppo disponendo di una quantità esigua di capitale. Versando qualche milione di euro nella piccola società in cima si arriva a controllare, per gradini successivi, l’intero gruppo. Con questo sistema scalate all’apparenza impossibili, come quella di Telecom, possono essere facilmente realizzate. Sempre a debito, si intende.

Vediamo il procedimento passo per passo: nel Febbraio 1999 la Olivetti, attraverso la Tecnost di Roberto Colaninno, lancia una offerta pubblica d’acquisto e scambio, riuscendo ad ottenere in giugno il controllo della Telecom, con una quota del 51,02%. La somma con cui finanzia la scalata, complessivamente 61.000 miliardi di lire, Olivetti la riceve in prestito direttamente dalle banche (Lehman Brothers è il finanziatore principale) e con obbligazioni della controllata Tecnost, che emette anche nuove azioni per oltre 37mila miliardi. Successivamente Tecnost viene fusa con Olivetti per accorciare la catena di controllo.
Il controllo della compagnia viene quindi trasferito in una società non quotata, la Bell, domiciliata in Lussemburgo. Nella Bell vi era il 21,15% della Olivetti. La quota di controllo. E a conclusione dell’opa sulla Telecom, la Olivetti si è trovata a possedere la maggioranza della compagnia telefonica. Cioè, la Bell, che controllava Olivetti, si è trovata a controllare Telecom. La Bell possedeva inoltre la maggioranza assoluta di Olivetti, ma questa non superava il 30% del capitale. Era cioè inferiore alla soglia che, in caso di passaggio di proprietà delle azioni, avrebbe fatto scattare l’opa obbligatoria sia su Olivetti che sulla sua controllata Telecom (più avanti vedremo come questa condizione ha reso possibile lo scambio tra Colaninno e Tronchetti Provera).

La Hopa, detentrice del 50% di Bell, con presidente, amministratore delegato e socio fondatore il bresciano Emilio Gnutti. Indagato nell’ambito del caso Unipol, il 29 dicembre 2005 Gnutti si è dimesso contemporaneamente da Hopa e dai consigli di amministrazione dell’Azienda Servizi Municipali di Brescia e di Monte dei Paschi.

Lehman Brothers, tra i principali attori della maxi-opa del 1999. Ruggero Magnoni e Vittorio Pignatti Morano, consulenti finanziari al fianco di Roberto Colaninno in quei giorni. E ancora prima, con De Benedetti quando questi era in Olivetti. E fu la Lehman, con Magnoni, ad accompagnare la nascita e i primi anni di vita della Omnitel, che era stata costituita dalla Olivetti per operare nel radiomobile dopo che a De Benedetti era stata aggiudicata dal governo Ciampi la licenza di secondo gestore.

Lehman Brothers, che il 15 settembre 2008 chiede al governo americano l’apertura del ”Chapter 11”, la procedura fallimentare statunitense: debiti bancari per 613 miliardi di dollari, debiti obbligazionari per 155 miliardi e attività (assets) per un valore di 639 miliardi. La più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti finora.

Fu grazie alla Omnitel, di cui la Lehman detenne inizialmente una quota azionaria, che la Olivetti riuscì a salvarsi dal dissesto innescato dal tracollo delle attività informatiche. La Omnitel, dopo che Colaninno arrivò in Olivetti, fu dapprima oggetto di una joint venture con la tedesca Mannesmann - operazione curata dalla stessa Lehman, che fruttò al gruppo di Ivrea un’iniezione di liquidità - a cui fu poi ceduta per intero in prossimità dell’Opa sulla Telecom.

Il ricavato della vendita della Omnitel (7,75 miliardi di euro) costituì la base economica della scalata. Senza il denaro versato dalla Mannesmann l’opa del seconolo non si sarebbe mai potuta realizzare.

La Lehman - con Magnoni, Pignatti e Alessandro Foti - entra nella cabina di regia della scalata insieme alla Chase Manhattan, alla DLJ e a Mediobanca. Gli istituti di credito incassano ingenti commissioni, partecipando alla preparazione di un’Opa. Se questa è multimiliardaria, le commissioni lo saranno altrettanto.

Banale ma vero: chi ci rimette sono sempre i piccoli risparmiatori.

E la politica? Il Ministero del Tesoro aveva ancora una quota del 3,5%, pari a due miliardi di euro (la cosiddetta ”golden share”). Il Tesoro non si presentò all’assemblea degli azionisti che doveva decidere le contromisure alla scalata, preferendo rimanere neutro rispetto all’operazione. La legge sulla golden share avrebbe permesso al Tesoro il diritto di veto sull’operazione, ma tale diritto era contestato in sede europea.


La gestione di Marco Tronchetti Provera -
Luglio 2001: fine dell’era Colaninno. Nonostante abbia da poco ceduto importanti asset (l’80% di Italtel e Sirti), il gruppo Olivetti-Telecom è in grandi difficoltà e Colaninno, Gnutti e i loro soci sono costretti a passare la mano. Dopo diverse trattative viene trovato un accordo con Tronchetti Provera (presidente della Pirelli) e Benetton. Per il 23% della Olivetti (pacchetto di controllo) i nuovi proprietari di Telecom Italia pagano 4,175 Euro per azione, ma in borsa le azioni della Olivetti quotavano solo 2,25 Euro (la metà). Il tutto avviene senza lanciare alcuna opa, bensì con trattativa privata. un’operazione da 80 miliardi di euro.

«Quell’esborso assurdo è all’origine di tutti i problemi successivi. Il titolo Telecom non riuscì mai a risalire la china» (Giuseppe Oddo, dal suo blog Finanza e Potere)

L’esborso è spiegabile nel fatto che, siccome la Bell possedeva meno del 30% del capitale (sufficiente comunque a garantire la maggioranza assoluta), comprando direttamente da Colaninno, Marco Tronchetti Provera evitò di lanciare un’OPA totalitaria, che gli sarebbe costata ancora di più.

Per la plusvalenza di 1,5 miliardi di euro ottenuta grazie al passaggio di proprietà di Telecom, la Bell è stata indagata per evasione fiscale e multata dall’Agenzia delle entrate per 1,937 miliardi di euro. L’accertamento con adesione a cui hanno aderito i soci di Bell ha permesso la riduzione delle sanzioni ad un quarto del minimo, così la società ha dovuto versare al Fisco solamente 156 milioni.

Olimpia, la finanziaria che controlla Telecom, creata per l’occasione. La struttura piramidale che portava Tronchetti Provera a controllare Telecom Italia possedendo solo lo 0,11% del capitale votante era così composta: Pirelli & C, che ne deteneva la maggioranza (58%), Edizione Holding (cioè i Benetton, 16%), Banca Intesa (5%), e Unicredit (5%), a cui in seguito si è aggiunta Hopa (16%), la holding bresciana di Emilio Gnutti (ancora lui).
Il risultato fu un’impressionante cascata di società che per mantenersi in equilibrio era costretta a succhiare risorse dal basso. La Telecom fu spremuta come un limone per anni e con i suoi dividendi permise alla Olimpia di rimborsare gli interessi passivi e parte dei debiti verso le banche. (Giuseppe Oddo, dal suo blog Finanza e Potere)

Per accorciare la catena di controllo viene decisa, nel 2003, la fusione della controllante Olivetti con Telecom Italia. In seguito alla fusione, e con la conseguente ridenominazione di Olivetti in Telecom Italia, la quota di Olimpia in Telecom scende intorno al 30%.

Nel marzo 2005 Telecom lancia in borsa un’offerta pubblica d’acquisto su TIM. La fusione Telecom-TIM è finanziata con un mutuo di una cordata di banche (in misura maggiore da Banca Intesa). Il costo necessario per rastrellare le azioni TIM dal mercato eleva l’indebitamento di Telecom da 39 a 44 miliardi di euro. In seguito a questa fusione, la quota di Olimpia in Telecom Italia scende intorno al 18%.

Dal bilancio 2005 l’indebitamento finanziario netto risulta essere di 39,858 miliardi di euro. Tuttavia, come già nell’anno passato, la società decide, nel marzo 2006, di dare priorità all’aumento dei dividendi per gli azionisti; in risposta, l’agenzia Fitch Ratings riduce il rating di Telecom Italia, portandolo da A- a BBB+.

Perchè dopo aver domato il debito Tronchetti lo fa riesplodere con l’opa su Tim e con la successiva fusione Telecom-Tim, un’operazione da 20 miliardi di euro? Nella seconda metà del 2004 Telecom era arrivata a quotare 3,3 euro e il suo indebitamento totale era sceso a 38,7 miliardi. Nel 2005, dopo la fusione Telecom-Tim, l’esposizione tornerà a crescere raggiungendo i 51 miliardi e l’azione tornerà a scivolare verso i 2 euro». (Giuseppe Oddo, dal suo blog Finanza e Potere)

Il 1º febbraio 2006, sotto pressione di Pirelli & C. e Edizioni Holding, la Hopa di Gnutti annuncia la sua uscita da Olimpia. Dopo poco tempo escono dalla società anche le banche. Con la loro uscita, la partecipazione di Pirelli & C. in Olimpia sale all’80%, mentre quella di Edizioni Holding sale al 20%.

Il meccanismo si inceppò quando il prezzo di Borsa della Telecom scese intorno ai 2 euro e le società che la controllavano (Pirelli e Olimpia) furono obbligate a svalutarne la partecipazione in bilancio. A quel punto l’equilibrio della catena di controllo vacillò e Pirelli fu costretta a vendere. (Giuseppe Oddo, dal suo blog Finanza e Potere)


Gli ultimi giorni dell’era Tronchetti -
15 settembre 2006: a sorpresa, un consiglio di amministrazione straordinario accetta le dimissioni da presidente di Marco Tronchetti Provera. Pare che l’imprenditore abbia rinunciato alla carica a seguito di una polemica con la Presidenza del Consiglio, legata all’implementazione delle nuove strategie del gruppo di tlc, che puntava a creare maggiori sinergie tra rete e contenuti (c’era anche l’ipotesi di un accordo con la NewsCorp di Rupert Murdoch) e a dare alla società maggiore flessibilità industriale e finanziaria. Guido Rossi è nominato nuovo presidente.

10 febbraio 2007: spunta per la prima volta la pista Telefónica de España, come partner industriale. Il giorno dopo Pirelli conferma «l’esistenza di colloqui» con Telefónica.

12 febbraio 2007: Telefónica precisa, «ci hanno offerto una quota di minoranza di Telecom Italia».

1 marzo 2007: i colloqui tra Pirelli e Telefónica sono sospesi. Si presume anche a causa delle pressioni del governo. Imperativo categorico: mantenere l’italianità.

7 marzo 2007: tramontata l’opzione Telefónica. Per il futuro di Telecom si prospetta un intervento delle banche.

13 marzo 2007: Edizione Holding si dice disponibile a restare in Olimpia in caso di cessione della quota di Pirelli, a seconda del profilo dei nuovi azionisti.

22 marzo 2007: Profumo (amministratore delegato di Unicredit): «Non c’è chiarezza su piani futuri del gruppo».

26 marzo 2007: da San Paolo (Brasile), il premier Romano Prodi dice che «Non c’è nessuna preclusione a investimenti stranieri in Italia nel settore delle telecomounicazioni».

26 marzo 2007: Sintonia, la nuova holding della famiglia Benetton che raggruppa le partecipazioni nelle utility e infrastrutture, sostituisce Edizione Holding in Olimpia.

Il 1 aprile 2007 Marco Tronchetti Provera annuncia di aver ricevuto una grossa offerta per vendere Telecom: 2,82࿬ ad azione per rilevare il 66% di Olimpia, messi sul tavolo dagli americani di At&t e dai messicani di América Movil, cioè da due compagnie straniere (ciascuna voleva il 33%).

Il governo, saputa la cosa, è andato in fibrillazione: può un asset strategico come la compagnia Telefónica di bandiera finire in mani non italiane? Tanto più che sono straniere anche le altre compagnie che operano nel Paese? Di qui dichiarazioni di fuoco e invocazioni d’aiuto a Mediobanca, già azionista Telecom, con in mano un diritto di prelazione da esercitare entro quindici giorni dall’offerta. ”Diritto di prelazione” vuol dire che, allo stesso prezzo, Mediobanca può prendere il pacchetto conteso e subentrare al concorrente.

Venerdì 6 aprile. Marco Tronchetti Provera ha di fatto licenziato il presidente della Telecom, Guido Rossi, col sistema di non inserirlo nella lista di candidati che dovranno essere eletti nel nuovo consiglio di amministrazione. Così Rossi ha preferito dimettersi. In Telecom era diventata opinione generale che Rossi giocasse per Prodi e contro Tronchetti, manovrando per tenere il titolo depresso al prezzo di 2,1 euro ad azione, in modo da costringere Olimpia a vendere. Alla fine, dopo che Rossi aveva costretto Tronchetti a rinunciare all’alleanza con Telefónica e quando sembrava ormai certo che avrebbe dovuto cedere l’azienda alle banche e a basso prezzo (come voleva Prodi), ecco arrivare gli americani di At&t e i messicani di Carlos Slim (America Movil). Alle grida di indignazione di banche e governo, specialmente dell’ala a sinistra e di Di Pietro, Tronchetti ha risposto con una dichiarazione di guerra: licenziando l’intoccabile Guido Rossi. Al suo posto, Pasquale Pistorio.


Telefónica -
Telefónica de España, uno dei principali attori delle telecomunicazioni in Europa. Fatturato: 57,95 milioni di euro; Reddito operativo: 13,87 milioni di euro; Utile: 7,592 milioni di euro; Dipendenti: 251.780 (tutti i dati sono relativi al 2008). Opportunità o minaccia? Due fronti opposti.

I sostenitori ragionano così: in qualsiasi parte del mondo le grandi società telefoniche o fanno capo allo Stato (come in Francia) o sono delle compagnie ad azionariato diffuso (come in Gran Bretagna e negli Usa). Ma siccome Telefónica è un’impresa straniera, bisogna sbarrarle la strada a tutti i costi, nell’interesse della collettività. E allora si fanno scendere in campo le grandi banche. Che hanno interesse ad accaparrarsi un cliente come Telecom, da cui possono spremere commissioni, interessi e altro ancora, e in questo caso hanno le mani lunghe. Ma quando debbono fare il mestire dell’azionista, ossia ricapitalizzare la società per permetterle di investire, allora le loro mani diventano improvvisamente corte.

I detrattori ragionano così: Telefónica ha solo interesse a spremere Telecom, come dimostrato dal suo sostegno alla segmentazione geografica ed alla chiusura della NGAN (Next Generation Access Network, la rete a banda larga di ultima tecnologia) ai partner internazionali, nell’ottica di una gestione esclusiva della rete di accesso e della gestione delle prospettive delle reti di nuova generazione. Telefónica ha un debito ingentissimo che deve finanziare prelevando risorse dalle colonie (e lo vuole ottenere con le due tecniche di cui sopra).

La realtà: il rischio che Telecom diventi la colonia di una multinazionale estera esiste sia con Telefónica che con qualsiasi altro gigante internazionale che riuscisse ad acquisire il controllo della società.


La nascita di Telco -
Il 28 aprile 2007 una cordata italo-spagnola composta dal gotha della finanza italiana (Mediobanca, Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo e Benetton) e da Telefónica de España, lancia un’offerta per rilevare la quota di Pirelli in Olimpia creando una nuova società (una NewCo), denominata Telco. Questa incorporerà Olimpia, e le quote Telecom (5,6%) portate in dote da Generali e Mediobanca. L’offerta è volta ad ottenere il controllo del 23,5% di Telecom Italia. I partner italiani la pagano 2,53 ࿬ ad azione, Telefónica 2,82࿬ ad azione, per un valore totale di 4,1 miliardi di euro (lordi). Tale offerta viene accettata dal CdA straordinario di Telecom il giorno stesso.

Inizialmente Telco viene capitalizzata con:

• 2.314 milioni di euro, apportati in contanti da Telefónica;

• 1.373 milioni di euro, apportati in azioni Telecom da Generali (542,8 milioni di azioni Telecom Italia, pari al 4,06% del capitale ordinario di Telecom, valutate 2,53 euro ciascuna);

• 522 milioni euro apportati in azioni Telecom Italia da Mediobanca (206,5 milioni di azioni, pari all’1,56% del capitale ordinario di Telecom, valutate 2,53 euro ciascuna);

• 522 milioni euro apportati in contanti da Intesa Sanpaolo, in linea con i valori di conferimento di Generali e Mediobanca;

• 412 milioni euro apportati in contanti da Sintonia SA, in linea con i valori di conferimento di Generali e Mediobanca;

• Viene poi offerta la possibilità di un finanziamento ponte, fino a un massimo di 900 milioni di euro, in vista di un ulteriore aumento di capitale di Telco, da effettuarsi successivamente alla chiusura dell’operazione, e che potrà essere sottoscritto in misura proporzionale dagli investitori italiani e da Telefónica.

Ecco la composizione di Telco: 42,3% Telefónica; 28,1% Assicurazioni Generali; 10,6% Mediobanca; 10,6% Intesa Sanpaolo; 8,4% Sintonia Spa (Benetton). Ricordiamo che queste sono percentuali relative al 23,5% di Telecom Italia.

Il restante 76,5% di Telecom è così suddiviso: Alliance Bernstein 2%, Brandes Investment Partners Llc 4%, Findim Group (la finanziaria lussemburghese della famiglia Fossati) 5%, Fondi e Mercato (flottante e semi-flottante) 65,5%.

Il 24 ottobre 2007 viene posta la firma per il passaggio da Olimpia a Telco, che concretizza l’operazione. A dicembre, vengono nominati come presidente Gabriele Galateri di Genola e come amministratore delegato Franco Bernabè. ancora oggi questa la dirigenza.
Franco Bernabè, già AD Telecom nel 1998, ai tempi del nocciolo duro degli Agnelli, a guidare il consorzio di azionisti. In quell’occasione Bernabè è rimasto nella posizione di AD per due anni, fino all’Opa di Roberto Colaninno nel 1999.

Marco Tronchetti Provera incassa dalla cessione di Olimpia circa 3,3 miliardi di euro netti, che investe in un piano di rifocalizzazione di Pirelli nei propri core-business. L’avventura in Telecom, complessivamente, è costata a Pirelli una minusvalenza di circa 3,5 miliardi di euro (subito bilanciati dalla cessione delle attività fotoniche di prima generazione, che ha generato una plusvalenza di 3,9 miliardi).

Otto alti dirigenti della gestione Tronchetti Provera hanno percepito liquidazioni per un totale di 50 milioni di euro: 17,3 milioni sono andati a Riccardo Ruggiero, 12 a Carlo Buora, 7,1 a Carlo Parazzini, 4,5 a Massimo Castelli, tra 2,5 e 3 milioni a Francesco Chiappetta, altrettanti a Gustavo Bracco, ad Antonio Campo Dall’Orto 2,47 e 1,26 a Pasquale Pistorio. Cifre al netto delle retribuzioni percepite nel corso degli anni.


Il presente -
Telecom Italia ha chiuso il 2008 con un risultato netto negativo di 93,9 milioni. L’indebitamento finanziario netto al 31 dicembre è pari a 286,8 milioni con in incremento di 71 milioni sul 2007. I ricavi consolidati del gruppo ammontano a 223,7 milioni e hanno registrato una crescita del 4,2% (214,6 milioni nel 2007).

Telefónica ha chiuso il 2008 con un utile di 7,5 miliardi, ma con una perdita di 209 milioni per quanto riguarda la partecipazione del 42% nella holding Telco.

19 febbraio 2009. Le quotazioni di Telecom Italia continuano ad andar giù: il titolo segna meno di un euro, tende cioè ad avvicinarsi al valore nominale di 55 centesimi. importante ricordare che in questo frangente storico i mercati scendono per i timori di un dissesto del sistema bancario internazionale, e per la concomitante recessione dell’economia. Sembra però che nella caduta del titolo Telecom ci sia qualcosa che vada oltre l’instabilità delle Borse: Franco Bernabè sembra impotente di fronte ai ribassi. In molti ritengono che la causa principale di ciò sia la composizione della compagine azionaria.

Telco, costruita per sbarrare la strada a Telefónica e impedirle la conquista della maggioranza. Vi comandano tutti gli altri: Mediobanca, Generali, Intesa Sanpaolo e Benetton. Quindi, da una parte c’è un socio di mestiere, straniero, che vorrebbere annettersi Telecom (e che spera di prendersi qualche pezzo pregiato della società); dall’altro un gruppo di soci finanziari italiani che, avendo esaurito liquidità per poter entrare nel capitale ai tempi della fondazione di Telco, non ha più fondi per ricapitalizzare (e anzi accusa una minusvalenza). Della perdita di valore in Borsa dell’intero pacchetto Telco (circa 5 miliardi di euro), quasi la metà è imputabile al comportamento dei grandi azionisti tricolore.

Telefónica. Osteggiata, ma necessaria a garantire la stabilità del colosso. Ha di che leccarsi le ferite: il suo investimento in Telecom s’è svalutato di quasi due terzi.

La riduzione dell’indebitamento, vera priorità del gruppo, fa avanzare a rilento gli investimenti di Telecom per la rete a banda larga. Il debito elevato (e gli interessi relativi) rendono difficile impiegare risorse in investimenti. Col rischio che la rete vada in tilt da un momento all’altro. E il ritardo accumulato da Telecom in un campo cruciale per lo sviluppo dell’economia tende a cronicizzarsi. con evidenti ripercussioni sulle quotazioni, che si basano anche sulle prospettive future dell’azienda.

La via maestra per abbattere l’esposizione che il gruppo sconta ancora oggi, a dieci anni dalla scalata di Colaninno, sarebbe quella di un robusto aumento di capitale. Proprio l’ipotesi che i grandi azionisti di Telco non hanno mai preso in considerazione. Ecco qualcosa su cui sono tutti d’accordo.

Lo scorporo della rete, ipotesi aborrita quanto probabile. Unica vera alternativa alla ricapitalizzazione. Lo scorporo dell’infrastruttura e il suo possibile passaggio nella sfera d’influenza dello Stato (come avviene oggi con Terna nel comparto dell’energia elettrica) come ultima spiaggia per abbattere il debito di Telecom, salvare le quotazioni, accorciare il divario tecnologico che rischia di frapporsi tra l’Italia e il resto d’Europa e rilanciare la concorrenza nel settore. Si è stimato che lo scorporo potrebbe far scendere il debito complessivo da 35 a 20 miliardi di euro.

20 maggio 2009. Palazzo Chigi torna ad interessarsi di Telefónica: lo spettro della ”fusione” ipotizzata nei giorni scorsi e caldeggiata da Cesar Alierta, il presidente di Telefónica, ha fatto drizzare le antenne a Silvio Berlusconi, convinto, come Prodi ai tempi di Tronchetti Provera, della necessita di difendere l’italianità di una compagnia strategica come Telecom. A costo di procedere allo scorporo della rete. L’allarme è cominciato con le parole di Franco Bernabè: «Dobbiamo rafforzare i progetti industriali e le sinergie strategiche. Dobbiamo razionalizzare l’azionariato di Telecom, ma senza una necessaria perdita del controllo da parte dei partner italiani». In una parola, dobbiamo fonderci con Telefónica. Alla Borsa piace: +2,2%, rialzo di prezzo a 1,02࿬.

La proposta di fusione: agli spagnoli la gestione di tutte le attività in Spagna e Sud America. All’Italia, oltre alle attività nel Paese, lo sviluppo del gruppo in Irlanda, Gran Bretagna e Germania, con le prospettive di espansione nell’Europa dell’Est e in Nord Africa. Così configurata, l’operazione porterebbe ad una situazione azionaria dove gli spagnoli contano per il 65% e gli itaiani per il 35%.

Bernabè ha parlato con il ministro dell´Economia, Giulio Tremonti. Hanno fatto il punto sull’indebitamento dell’azienda e sull’urgenza di un nuovo intervento delle banche (un’iniezione di liquidità). I vertici di Telecom hanno quindi chiesto al governo di mediare con gli istituti di credito. Ma il governo ha forti dubbi, sia sulla solidità patrimoniale dei soci italiani che sulle condizioni di Telecom.

L’indebitamento netto di Telecom è in crescita: nei primi tre mesi del 2009 è cresciuto di mezzo miliardo di euro salendo a 34.518 milioni.

La convivenza Telecom-Telefónica all’interno di Telco si fa sempre più delicata: in Sud America i mercati brasiliani e argentini si ritrovano ad avere la compresenza sia di Telecom (con Tim Brasil e Telecom Argentina) che di Telefónica (con proprie attività distinte). Il gruppo guidato da Bernabè è stato sottoposto ad un’offensiva antitrust da parte delle autorità garanti. Quindi, o si tagliano i ponti o ci si fonde.

Il premier Berlusconi vorrebbe evitare un nuovo caso Alitalia. A Palazzo Chigi nessuno esclude la possibilità di ricercare nuovi soci per Telco, o di chiedere uno ”sforzo” ai partner italiani (le banche) con l’obiettivo di diluire la partecipazione del colosso di Madrid tramite un aumento di capitale. Ma pesano i dubbi sulla loro liquidità.

Sullo sfondo resta la possibilità dello scorporo della rete. Da imbracciare se l’affondo di Telefónica si rivelasse irresistibile. Con la creazione di una società composta dai soggetti privati interessati e da un partner ”pubblico”. L’investimento di 1,2 miliardi (promosso dal governo con il cosiddetto ”piano Caio”) per colmare le lacune attuali della rete e superare il ”digital divide” potrebbe essere la premessa per puntare successivamente alla Ngan (la rete di nuova generazione a banda larga). Che verrebbe poi scorporata.

Esiste in realtà un’alternativa alla fusione e allo scorporo: i soci italiani di Telco potrebbero invocare la scissione della società, è previsto dagli atti. Gli italiani si ritroverebbero con il 14% e Telefónica il 10%.

Obiezione immediata: gli italiani diventerebbero deboli, e a rischio scalata da parte di Telefónica.

Ci vorrebbero altri investitori, pronti ad entrare. Ed esistono già: fuori dal pacchetto di controllo ci sono i Fossati, con il 5% (detenuto tramite la loro finanziaria, la Findim Group), e un atteggiamento non più bellicoso (in tempi sospetti erano arrivati ad invocare la fusione fra Telecom e Telefónica).

In questo caso, i soci italiani potrebbero raccogliere il 19% del capitale Telecom, la stessa quota che aveva Tronchetti Provera quando controllava la società, ai tempi di Olimpia. Con gli italiani al 19% e gli spagnoli al 10% Telefónica diventerebbe quello che avrebbe sempre dovuto essere: un (semplice) socio industriale. Così il problema Sudamerica sarebbe risolto, visto che Telefónica non potebbe più essere considerata, tramite Telco, socio di riferimento di Telecom. E la scissione con un nocciolo duro italiano potrebbe persino evitare lo scorporo della rete in rame. (Andrea Bassi, Milano Finanza 21 maggio 2009)