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 2009  giugno 16 Martedì calendario

BANCHE, IL RITORNO DELLA PAROLA «DIVIETO»


Convinte di essere diventate trop­po grandi per fallire, le grandi banche si sono assunte ogni ge­nere di rischio pur di elevare il rendimento del capitale investi­to. La bancarotta della Lehman è stata solo l’eccezione disastrosa che ha reinnescato la catena dei salvataggi di Stato. Ma ades­so, parlando a nome del Financial Stability Board, il governatore Mario Draghi dice che le banche dovranno lavorare con me­no debito e più capitale e che il sistema fi­nanziario dovrà diventare abbastanza robu­sto da lasciar fallire le istituzioni malgesti­te. Sono obiettivi realistici, con la strumen­tazione che al momento è dato vedere, o finiranno con l’essere una riedizione del Gattopardo adattata all’alta finanza?

Partiamo dai fatti. Rielaborando il rap­porto Mediobanca sulle banche internazio­nali, risulta che, nel 2008, le prime 31 ban­che commerciali europee hanno imbarca­to perdite su titoli, crediti e avviamenti pa­ri a 248 miliardi di euro: perdite coperte solo parzialmente con aumenti di capitale per 115 miliardi, sottoscritti al 45% dagli Stati. Nel 2003, quando iniziavano a dare le ultime, potenti pompate alla bolla credi­tizia, queste banche avevano già una leva finanziaria media di 28,5 (28,5 euro di de­biti e uno di capitale). Nel 2008 la leva è salita a 43,3. Per tornare al 2003, servireb­be una ricapitalizzazione di 335 miliardi. Ma se si volesse una più confortevole leva di 20, che poi è la media delle 4 banche europee più solide (Credit Mutuel, Santan­der, Intesa Sanpaolo e Rabobank), la ricapi­talizzazione salirebbe addirittura a 752 di miliardi.

Il Financial Stability Board avverte che il rafforzamento sarà graduale. Saggio. Ma quanto graduale? Tra il 1998 e il 2007, nel loro esercizio migliore le 31 banche hanno raccolto 45 miliardi di mezzi freschi. Di questo passo, per tornare alla leva del 2003, impiegherebbero 7 anni; per metter­si alla pari delle più solide, ce ne vorrebbe­ro 17. Forse, nei nuovi standard ai quali la­vora il Board dei banchieri centrali, dovreb­be comparire quella parola divieto che la deregulation aveva bandito. Per esempio, divieto di acquisto di azioni proprie. Le 31 banche ne hanno acquistate per 99 miliar­di tra il 1998 e il 2007. Non avessero fatto quei buy backs, loro avrebbero più capita­le e noi avremmo meno problemi.

Ma quando Draghi auspica il diritto di fallire anche per le banche, apre questioni di ancor più ampia portata. Allo stato del­­l’arte, infatti, non è chiaro quali caratteristi­che reali debba avere un sistema per esten­dere la schumpeteriana distruzione creatri­ce al mondo del credito concentrato. Il dub­bio che un tale sistema non esista è forte. E fa sospettare che l’aver favorito la costruzio­ne dei giganti bancari con attivi più grandi del Pil dei loro Paesi sia stata una grave im­prudenza. In passato, le banche in crisi ve­nivano salvate da altre, più grandi e più sa­ne. Oggi la domanda è: quale soggetto di mercato ce la farebbe con i colossi? Rispo­sta: un tal soggetto non esiste. E allora è for­se giunto il momento di dare un’altra picco­nata alla deregolazione e alzare i requisiti patrimoniali mano a mano che crescono la dimensione dell’impresa bancaria e il suo implicito rischio sistemico. Ma simili deci­sioni, prima che dall’iniziativa del banchie­re centrale, dipendono dalla convinzione culturale, dalla forza politica e dall’influen­za internazionale del governo.