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 2009  giugno 15 Lunedì calendario

Le memoria del XX secolo è per tutti noi costruita attorno ad alcune fotografie che sono diventate vere e proprie icone

Le memoria del XX secolo è per tutti noi costruita attorno ad alcune fotografie che sono diventate vere e proprie icone. Il volto ricco di rughe e dignità della madre migrante di Dorothea Lange, il miliziano che muore di Robert Capa, il viso incorniciato di barba di Che Guevara fissato per l’eternità da Korda, la bambina vietnamita bruciata dal napalm di Nick Ut, la ragazza afghana dagli occhi verdi e dal velo ocra di McMurry, solo per citarne alcune. E così diventa un tuffo nella memoria del secolo che abbiamo da poco attraversato ritrovarle nella mostra «99 click più uno», che fino al 26 settembre, alla Fondazione Piras di Asti, propone un percorso di 100 scatti all’interno delle oltre 15 mila immagini della straordinaria collezione messa insieme da Flavio Piras nell’arco di più di 30 anni. Straordinaria perché si tratta in molti casi di vintage, ossia di prime stampe, di quelle fotografie che poi riprodotte migliaia di volte sono entrate a far parte del nostro immaginario. E che si tratti di vintage lo capisci anche dalle piccole imperfezioni: le macchie sui capelli della Migrant Mother, le righe sul miliziano di Capa, l’ingiallimento della celeberrima Woman with flag di Tina Modotti. «Fotografie, storie di incanti» è il sottotitolo della mostra, ma sarebbe meglio dire di inganni, spiega Giuseppe Pinna, nella corposa introduzione al catalogo. «Le fotografie tendono a incantare, essere credute per ciò che mirano a far credere», sottolinea, e fa tra l’altro l’esempio del bacio all’Hotel de Ville di Doisneau (in mostra accanto all’altro storico bacio tra il marinaio e l’infermiera a Times Square, il giorno della vittoria nel 1945, firmato Eisenstaedt), che sembrava colto al volo, seguendo la filosofia cartier-bressoniana e poi si è scoperto essere una messa in scena. «Le fotografie non sono mezzi di verità, ma effetti di verità, verosimiglianze», precisa. Nell’era della fiction questo non stupisce e non diminuisce il piacere di ripercorrere stili, momenti e tecniche che la fotografia ha sviluppato in questi anni e che la mostra ripropone centrifugate. Nel filone di «documentarismo sociale» ritroviamo così le immagini della grande depressione americana («Mi è sembrato opportuno riproporle - spiega Piras -, proprio mentre viviamo un’altra grande crisi») negli scatti, oltre che di Dorothea Lange, di Walker Evans: eccezionale, l’Alabama farmer interior, del ”36. L’essenzialità dell’interno di una casa contadina diventa un quadro astratto o meglio l’idea astratta della povertà, contrapposta a quella concreta dei neri che fanno la fila sotto il cartellone del sogno americano in At the time on the Louisville Flood di Margaret Bourke-White. E documentarismo anche se con altri fini era quello dei paparazzi italiani al tempo della Dolce vita. Oltre ad Anita Ekberg che fa il bagno nella Fontana di Trevi dal set felliniano (è firmata da Pierluigi Praturlon), abbiamo le scazzottature fra Walter Chiari e Tazio Secchiaroli di Elio Sorci, le manifestazioni in Largo Chigi a Roma nel 1952, con Franco Pinna e Luciano Mellace in Lambretta («Questi paparazzi si scambiavano sovente i negativi - ricorda Piras -, per cui oggi a volte diventa difficile capire cosa sia dell’uno e cosa dell’altro»). E, come omaggio a quella eroica stagione del fotogiornalismo italiano, in mostra c’è una vera Lambretta dell’epoca, strumento di lavoro non meno necessario degli inseparabili flash. Un terzo tipo di documentarismo è quello dei fotografi che hanno «sposato» il mondo dell’arte contemporanea, inseguendo gli artisti e le loro opere: ritroviamo Pascali sotto il suo ragno, Claudio Abate, oppure Giacometti il giorno in cui vince il Leone d’oro a Venezia, visto da Ugo Mulas. Si può percorrere la mostra seguendo l’eleganza formale di autori come Rodchenko (bellissima la Girl with Leica), Weston (il nudo matissiano), Avedon («Un’altra riproduzione di Dovima with elefants, è stata battuta di recente a un’asta per 160 mila dollari», ricorda Piras), Barbieri (c’è la Audrey Hepburn), Irving Penn, Helmut Newton (la famosa Charlotte Rampling nuda), Herbert List o Horst P. Horst. Con corollario di Diane Arbus e Andy Warhol. Non mancano i grandi italiani: da Ghirri e Giacomelli a Berengo Gardin, Scianna, Basilico, Fontana, Jodice, Sellerio. Ci sono i big di inizio secolo come Atget e Stiegliz, Lartigue e i colossi tout-court come Steichen («Lui è talmente grande che mi sembrava quasi riduttivo mettere una sola fotografia, così ho scelto l’immagine di un suo manoscritto», dice ancora Piras) o Cartier Bresson, i naturalisti come Minor White e gli africani come Seita. Ma perché 99 più uno? «L’uno è una fotografia non fotografia, la riproduzione dell’autoritratto di Leonardo dalla Biblioteca Reale di Torino fatta da Ferruccio Rampazzi».