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 2009  giugno 15 Lunedì calendario

Il quartiere di Tehe­ran che ha votato in massa per Ahma­dinejad cuoce in un forno incassato tra le montagne, quaranta gradi e ze­ro vento

Il quartiere di Tehe­ran che ha votato in massa per Ahma­dinejad cuoce in un forno incassato tra le montagne, quaranta gradi e ze­ro vento. Il nord della città sta più su, due-trecento metri in altitudine, chi­lometri di distanza politica. A Nar­mak, il presidente possiede ancora la casa di famiglia, dove ha vissuto quan­do il padre si è trasferito da Aradan, un villaggio piazzato sulla via della Se­ta, più deserto che campagna. Cam­bio di indirizzo e cambio di nome sul­la porta: da Saborjhian – che suona un po’ come «tappetaro» – ad Ahma­dinejad, che vuol dire «stirpe virtuo­sa ». Il cubo bianco di due piani è stretto tra palazzi più alti e protetto dai mili­tari. In questi giorni, le stanze sono vuote, «paura di attacchi» commenta­no i vicini. Quella che continua a riem­pirsi è la cassetta delle lettere per il leader. Una processione che segue l’ombra creata dai muri. Hassan bus­sa alla finestrella e tira fuori una bu­sta bianca. «Non sono lamentele o ri­chieste d’aiuto», dice. Solo un messag­gio di auguri per il presidente, «la be­nedizione che sia stato eletto per la se­conda volta». Un funzionario si infor­ma, ascolta e archivia la missiva. Il sistema è stato organizzato da Mahmoud Ahmadinejad, quand’era sindaco di Teheran. Vengono raccolte anche duecento lettere al giorno, so­prattutto suppliche, e inviate a un uffi­cio che dovrebbe risolvere i casi. O co­sì spera Fatima, che si è fatta accom­pagnare dalle sorelle e dalla figlia per raccontare la storia del marito, reduce della guerra con l’Iraq, depresso ed esaurito, dopo che una bomba gli è scoppiata vicino. «Lui non sa che so­no qui. Ripete: ’Non abbiamo biso­gno di niente, ho combattuto per Dio e per il mio Paese’. Invece ci servono i soldi per pagare le spese mediche». Agli otto anni di conflitto contro Saddam Hussein, Ahmadinejad ha partecipato da volontario, corpo dei genieri e anima per Khomeini. In bat­taglia con l’addestramento religioso dell’Ayatollah, assorbito nella mo­schea dietro casa, a Narmak, dove il presidente torna qualche volta a pre­gare il venerdì. «Ascoltavamo e inse­gnavamo », ricorda Nasser Hadian, professore di Scienze Politiche all’uni­versità di Teheran, cresciuto con Ah­madinejad. «Avevamo ventidue anni e io tenevo lezioni sulle rivoluzioni, Mahmoud sui principi islamici», rac­conta al settimanale New Yorker. Da allora si sono allontanati, «anche se siamo rimasti amici. I suoi consiglieri mi considerano troppo occidentalizza­to, quasi una spia. Devo ammettere, io e lui litighiamo su tutto. Non è que­stione di quoziente di intelligenza: la sua formazione da ingegnere lo spin­ge a pensare che la società sia come il mondo fisico, che puoi cambiarla as­semblando mattoni». Durante il primo mandato, Ahmadi­nejad ha cercato di rilanciare l’econo­mia con progetti edilizi sovvenzionati dallo Stato. Gli analisti lo accusano di aver spinto gli investitori ad abbando­nare la Borsa per speculare sul merca­to immobiliare. I prezzi delle case a Teheran sono cresciuti fino al 150 per cento e senza appartamento si sono ri­trovati proprio quei giovani di classe medio-bassa che sembrano aver con­tinuato a sostenerlo. Senza casa e sen­za matrimonio: il boom è stato un di­sastro per le coppie che si sarebbero volute sposare e causa di divorzio – secondo i giornali iraniani – per quel­le costrette a tornare a vivere con i ge­nitori. «Nella mia famiglia abbiamo vota­to tutti per lui», spiega Mohsen, tre te­lefonini e una sola fede: Ahmadi­nejad. Ha attraversato la città per veni­re a lasciare la sua lettera di congratu­lazioni. Le accuse di brogli, le manga­nellate contro gli oppositori, gli arre­sti dei capi riformisti, i diritti negati alle donne o gli attacchi alla libertà di stampa non sembrano preoccuparlo. «Quelli che protestano non vogliono accettare di aver perso. Il presidente ha cominciato un progetto di risana­mento e deve poterlo finire». La crisi e l’infla­zione oltre il 20 per cento non hanno intaccato l’immagi­ne di partigiano dei meno agiati, coltivata dai suoi consiglieri. Che la­sciano filtrare rive­lazioni populiste per il popolo di Nar­mak e dintorni: il cognome è cambia­to, ma Ahmadinejad mostra di non vo­ler dimenticare le umili origini, ad Aradan torna spesso per visitare i cu­gini e la tomba di uno zio. E non siede mai alla tavola – raccontano – di chi non abbia pagato la zakat, la pia tassa che i musulmani dovrebbero do­nare ai poveri. Davide Frattini