Davide Frattini, Corriere della Sera 15/06/2009, 15 giugno 2009
Il quartiere di Teheran che ha votato in massa per Ahmadinejad cuoce in un forno incassato tra le montagne, quaranta gradi e zero vento
Il quartiere di Teheran che ha votato in massa per Ahmadinejad cuoce in un forno incassato tra le montagne, quaranta gradi e zero vento. Il nord della città sta più su, due-trecento metri in altitudine, chilometri di distanza politica. A Narmak, il presidente possiede ancora la casa di famiglia, dove ha vissuto quando il padre si è trasferito da Aradan, un villaggio piazzato sulla via della Seta, più deserto che campagna. Cambio di indirizzo e cambio di nome sulla porta: da Saborjhian – che suona un po’ come «tappetaro» – ad Ahmadinejad, che vuol dire «stirpe virtuosa ». Il cubo bianco di due piani è stretto tra palazzi più alti e protetto dai militari. In questi giorni, le stanze sono vuote, «paura di attacchi» commentano i vicini. Quella che continua a riempirsi è la cassetta delle lettere per il leader. Una processione che segue l’ombra creata dai muri. Hassan bussa alla finestrella e tira fuori una busta bianca. «Non sono lamentele o richieste d’aiuto», dice. Solo un messaggio di auguri per il presidente, «la benedizione che sia stato eletto per la seconda volta». Un funzionario si informa, ascolta e archivia la missiva. Il sistema è stato organizzato da Mahmoud Ahmadinejad, quand’era sindaco di Teheran. Vengono raccolte anche duecento lettere al giorno, soprattutto suppliche, e inviate a un ufficio che dovrebbe risolvere i casi. O così spera Fatima, che si è fatta accompagnare dalle sorelle e dalla figlia per raccontare la storia del marito, reduce della guerra con l’Iraq, depresso ed esaurito, dopo che una bomba gli è scoppiata vicino. «Lui non sa che sono qui. Ripete: ’Non abbiamo bisogno di niente, ho combattuto per Dio e per il mio Paese’. Invece ci servono i soldi per pagare le spese mediche». Agli otto anni di conflitto contro Saddam Hussein, Ahmadinejad ha partecipato da volontario, corpo dei genieri e anima per Khomeini. In battaglia con l’addestramento religioso dell’Ayatollah, assorbito nella moschea dietro casa, a Narmak, dove il presidente torna qualche volta a pregare il venerdì. «Ascoltavamo e insegnavamo », ricorda Nasser Hadian, professore di Scienze Politiche all’università di Teheran, cresciuto con Ahmadinejad. «Avevamo ventidue anni e io tenevo lezioni sulle rivoluzioni, Mahmoud sui principi islamici», racconta al settimanale New Yorker. Da allora si sono allontanati, «anche se siamo rimasti amici. I suoi consiglieri mi considerano troppo occidentalizzato, quasi una spia. Devo ammettere, io e lui litighiamo su tutto. Non è questione di quoziente di intelligenza: la sua formazione da ingegnere lo spinge a pensare che la società sia come il mondo fisico, che puoi cambiarla assemblando mattoni». Durante il primo mandato, Ahmadinejad ha cercato di rilanciare l’economia con progetti edilizi sovvenzionati dallo Stato. Gli analisti lo accusano di aver spinto gli investitori ad abbandonare la Borsa per speculare sul mercato immobiliare. I prezzi delle case a Teheran sono cresciuti fino al 150 per cento e senza appartamento si sono ritrovati proprio quei giovani di classe medio-bassa che sembrano aver continuato a sostenerlo. Senza casa e senza matrimonio: il boom è stato un disastro per le coppie che si sarebbero volute sposare e causa di divorzio – secondo i giornali iraniani – per quelle costrette a tornare a vivere con i genitori. «Nella mia famiglia abbiamo votato tutti per lui», spiega Mohsen, tre telefonini e una sola fede: Ahmadinejad. Ha attraversato la città per venire a lasciare la sua lettera di congratulazioni. Le accuse di brogli, le manganellate contro gli oppositori, gli arresti dei capi riformisti, i diritti negati alle donne o gli attacchi alla libertà di stampa non sembrano preoccuparlo. «Quelli che protestano non vogliono accettare di aver perso. Il presidente ha cominciato un progetto di risanamento e deve poterlo finire». La crisi e l’inflazione oltre il 20 per cento non hanno intaccato l’immagine di partigiano dei meno agiati, coltivata dai suoi consiglieri. Che lasciano filtrare rivelazioni populiste per il popolo di Narmak e dintorni: il cognome è cambiato, ma Ahmadinejad mostra di non voler dimenticare le umili origini, ad Aradan torna spesso per visitare i cugini e la tomba di uno zio. E non siede mai alla tavola – raccontano – di chi non abbia pagato la zakat, la pia tassa che i musulmani dovrebbero donare ai poveri. Davide Frattini