Masolino D’Amico, La Stampa 13/6/2009, 13 giugno 2009
Ispirato da una commedia di Maeterlinck dal titolo quasi analogo, scritto e diretto dal britannico Matthew Lenton, Interiors vuole produrre nello spettatore la sensazione di cogliere vite altrui come spiandole attraverso una finestra, ossia in un modo incompleto però insaporito dal fatto che gli spiati non sanno di esserlo
Ispirato da una commedia di Maeterlinck dal titolo quasi analogo, scritto e diretto dal britannico Matthew Lenton, Interiors vuole produrre nello spettatore la sensazione di cogliere vite altrui come spiandole attraverso una finestra, ossia in un modo incompleto però insaporito dal fatto che gli spiati non sanno di esserlo. Be’, direte voi, ma non è già questo che sempre succede in teatro? Sì e no; e la distinzione è uno dei due motivi d’interesse dello spettacolo. L’altro, mi affretto a dirlo, è la squisitezza di una esecuzione impeccabile. Dunque nel caso la finestra, ovviamente molto grande, consente di guardare dentro una stanza con una tavola imbandita per sette persone; ed è inquadrata, la finestra, da una cornice buia su cui sono proiettati effetti di neve e vento. Fuori insomma fa un tempo da lupi. Come capiremo, ci troviamo in un paese nordico, e si sta per festeggiare la notte più corta dell’anno. Gli ospiti arrivano imbacuccati e armati fino ai denti, contro orsi o forse predatori umani. Vediamo il padrone di casa, un uomo anziano inizialmente in mutande, dare gli ultimi tocchi, la sua giovane figlia o nipote prepararsi, quindi cinque ospiti giungere alla spicciolata - una anziana sportiva e giocherellona, una bella ragazza, un corteggiatore di questa, un ragazzo, un giovane immigrato forse magrebino. Nel corso della serata si mangia, si beve, si canta, piccole tensioni si manifestano o nascono, spesso comicamente. Lo stile è iperrealista, ma per esserlo fino in fondo una commedia «normale» dovrebbe ricorrere a un dialogo poco teatrale - a teatro si parla sempre in un modo molto più secco e chiaro che nella vita - senza contare che se spiassimo davvero dietro un vetro, non sentiremmo nulla. Ecco dunque la trovata geniale: gli otto personaggi si parlano, ma in effetti noi non sentiamo mai una sillaba di quello che dicono né, scopriamo, abbiamo bisogno di sentirlo. Sentiamo invece, amplificati e molto parchi, i commenti di chi li sta spiando con noi e per noi: una donna che si manifesterà a un certo punto, e che come ci dirà è morta. Costei ricostruisce quella lontana serata con nostalgia, e a un certo punto ci dirà anche la fine che faranno quegli otto, le cui piccole vicende nel frattempo ci hanno incuriositi. Un effetto insomma che può far pensare all’atteggiamento del narratore dei Morti, l’immortale racconto di Joyce, dov’è un’analoga rievocazione di una festicciola mediocre per persone mediocri, ma ora in qualche ora comprese, perdonate, amate.