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 2009  giugno 13 Sabato calendario

PICCOLO DOSSIER SU AMANDA NEL GIORNO 13/6/2009


CORRIERE DELLA SERA
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI

PERUGIA - Colpita «due vol­te sulla testa», chiamata «stu­pida bugiarda» durante gli in­terrogatori con «poliziotti da tutte le parti che mi urlavano e mi minacciavano», che «mi di­cevano di non chiamare un av­vocato perché farlo avrebbe di­mostrato che non volevo colla­borare », agenti che facevano domande e «suggerivano le ri­sposte, sia loro sia il pm. Io ero in confusione, sotto pres­sione, non riuscivo più a di­stinguere la verità da ciò che cercavo di immaginare»: Amanda Knox descrive così la notte passata in questura con l’accusa di aver ucciso, insie­me con Raffaele Sollecito e Ru­dy Guede, la studentessa ingle­se Meredith Kercher. In una lettera ai suoi avvocati del no­vembre 2007 la definisce «la peggiore esperienza della mia vita». Un anno e mezzo dopo quella notte, Amanda Knox, oggi ventiduenne, arriva da­vanti alla corte d’assise di Peru­gia e spiega perché allora si collocò sulla scena del crimine e perché accusò, oltre a se stes­sa, anche Patrick Lumumba. Racconta la sua verità, parla per sette ore.

«Ero andata in questura per­ché Raffaele era stato chiama­to e io avevo paura a stare da sola». Paura di cosa, di chi? «Di chi aveva ucciso Meredith. I poliziotti mi facevano sem­pre le stesse domande. Per ore, e ore, e ore. Poi hanno tro­vato un messaggio di Patrick sul mio telefono, e hanno co­minciato ad essere davvero du­ri ». Ciò non toglie che proprio lei, quella notte, abbia detto e scritto - anche se la Cassazio­ne ha giudicato inutilizzabili quelle carte, visto che lei era senza avvocato - di essere an­data nella casa di via della Per­gola, dove fu uccisa Meredith. «Mi urlavano che stavo proteg­gendo qualcuno, avevo paura, mi trattavano male». La paura, certo, e però, dice lei, c’è stato anche altro: «L’interprete mi ha detto che lei aveva vissuto un trauma e per un po’ non aveva ricordato niente, mi ha detto che a me poteva essere accaduta la stessa cosa». Così, racconta Amanda, «nella mia confusione ho provato a im­maginare, anche se mi sembra­va ridicolo».

Immaginare fino ad accusa­re Lumumba, una persona in­nocente? «Mi hanno colpito due volte prima che io pronun­ciassi il suo nome. Poi hanno cominciato a dire che l’avevo incontrato, e io sapevo che ero stata da Raffaele ma alla fine mi ero quasi convinta d’averlo incontrato, Patrick». Solo che, in quel foglio che scrive, Amanda racconta dei dettagli, anche, come quello di essersi tappata le orecchie mentre Mez veniva uccisa. «Mi chiede­vano: l’hai sentita urlare? Quando dicevo no, loro urlava­no che non era possibile, così io ho detto che forse mi ero tappata le orecchie, e loro han­no detto okay, scriviamo co­sì ».

E dunque tutta la confessio­ne, racconta lei, le è stata «sug­gerita dalla polizia o dal pm. Non sono pazza, bugiarda, as­sassina: questa è l’immagine che hanno costruito e che com­bacia perfettamente con l’accu­sa ». L’udienza è sospesa, oggi Amanda sarà interrogata dal pm, Giuliano Mignini: la gior­nata più importante del pro­cesso, forse, deve ancora co­minciare.

Alessandro Capponi

CORRIERE DELLA SERA
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI

PERUGIA – Non è più sfrontata, ma non è neanche angelica.

La nuova Amanda, quella che si pre­senta nell’aula della corte d’Assise per ri­spondere alle domande e raccontare la sua verità sull’omicidio di Meredith Ker­cher, appare decisa, sicura di sé, fin trop­po disinvolta. Passa senza problemi dal­l’inglese all’italiano, sempre padrona del­la situazione, consapevole che il suo futu­ro si gioca soprattutto sulle sensazioni che riuscirà a trasmettere ai giudici toga­ti e popolari.

E così, quando il suo avvocato Luciano Ghirga le chiede come era il suo rappor­to con Raffaele Sollecito lei diventa am­maliante: «L’ho conosciuto e mi è piaciu­to tantissimo», risponde mentre fissa il giovane barese. Ride anche lui, soddisfat­to, evidentemente ancora affascinato da questa bella americana che gli ha fatto vi­vere una settimana da sogno, e su un bi­gliettino scrive: « vero, tra noi è stato amore a prima vista».

A tradire il nervosismo di Amanda c’è forse l’herpes che ha sul labbro, le mani che si muovono in continuazione, le ri­sposte brevi quando si sente incalzata. Ma cerca di nasconderlo e, per dimostra­re sicurezza, dice subito sì all’istanza pre­sentata da radio e tv di poter filmare e registrare il suo interrogatorio.

Una scelta concordata con gli avvocati che suona come un messaggio: voglio farvi vedere chi sono davvero e convince­re tutti che non ho ucciso la mia amica Meredith. Di lei parla soltanto una volta e dice: «Andavamo d’accordo, anche se non ci frequentavamo tanto perché io an­davo all’università e la sera lavoravo. Ma stavamo bene insieme, chiacchieravamo in inglese, ci mettevamo a prendere il so­le, discutevamo di letteratura».

Al processo arriva con un abbigliamen­to semplice, camicetta bianca, pantaloni beige, un elastico celeste come le scarpe per legare i capelli. Ride spesso Amanda, ma sa essere molto seria e gridare un «no» chiaro nel microfono quando le chiedono se ha accusato Patrick per co­prire sé stessa. La sua voce sale di tono mentre ripercorre i primi giorni in carce­re, le analisi positive al test dell’Aids, la paura: «Ero preoccupata, certo. Pensavo che stavo morendo, che non potevo ave­re bambini. Ero nel panico, non capivo niente».

Non sa che tra il pubblico è seduta Filo­mena Romanelli, la sua coinquilina, la giovane che aveva accettato di affittarle una delle stanze della villetta di via della Pergola. Erano amiche, Amanda chiamò proprio Filomena la mattina del 2 no­vembre 2007 quando «sono tornata a ca­sa e ho trovato la porta aperta e mi sem­brò tutto molto strano perché c’era san­gue sul lavandino, sul tappetino e la stan­za di Meredith era chiusa a chiave».

Adesso invece appaiono distanti, qua­si estranee. Filomena si mostra infastidi­ta a sentire l’americana ricostruire gli spostamenti di quel giorno e soprattutto l’alibi per la sera precedente, quella del delitto. « incoerente, continua a cambia­re versione», sbotta Filomena convinta che nessuno l’abbia riconosciuta.

Amanda va avanti decisa, si capisce che con i suoi legali ha preparato la dife­sa nei dettagli tanto che a tratti dà la sen­sazione di recitare un copione.

L’avvocato Carlo Dalla Vedova si soffer­ma sulle sue abitudini, sugli interessi, sui legami familiari, le chiede come mai parli così bene l’italiano. Lei sorride orgo­gliosa: «Leggo moltissimo. Adesso ho preso Le memorie di Adriano di Margue­rite Yourcenar. una scrittrice francese, ma io lo leggo in italiano e capisco tut­to ». La scrittura «è sempre stata la mia passione, il modo migliore per esprimer­mi. Quando devo parlare con qualcuno preferisco scriverlo, anche se litigo con mia sorella scrivo e poi aspetto la rispo­sta ». In carcere ha sempre un diario: «Mi aiuta a sopportare tutto questo».

Fiorenza Sarzanini

***

LA STAMPA
ALESSANDRA CRISTOFANI
PERUGIA
Deve saperlo bene, Amanda Knox, coimputata assieme all’ex fidanzato pugliese Raffaele Sollecito dell’omicidio di Meredith Kercher, che la miglior difesa è l’attacco. Deve essere per questo che l’americana di Seattle, 22 anni il prossimo 9 luglio, nel giorno del suo interrogatorio durato oltre sei ore, non ha risparmiato fendenti a nessuno, rovesciando i ruoli, trasformandosi da accusata in accusatrice, e chiamando sul banco degli imputati polizia e pubblico ministero.
«Stupida bugiarda»

Ha detto di essere stata picchiata, due volte, da un agente della questura di Perugia. Ha scandito chiaramente le sue accuse, raccontando di essere stata schiaffeggiata, insultata e infine costretta a raccontare il falso. Mentre parla, Foxy Knoxy, così come amava farsi chiamare su Facebook, mima il gesto di un ceffone, dandosi due leggeri colpi sulla nuca. Dice che la polizia italiana, la notte tra il 5 e il 6 novembre del 2007, prima di arrestarla, non le ha risparmiato alcuna umiliazione, ripetendole in continuazione «stupida bugiarda», rifilandole un paio di sberle e insistendo perché facesse il nome della persona che voleva proteggere.
«Qualcuno urlava»

Di Colpo, Amanda ricorda tutto. O almeno così giura, stretta nella camicetta bianca: «Avevo tante persone intorno a me e qualcuno urlava. Io continuavo a ripetere che non c’entravo nulla con l’omicidio e che ero restata tutta la sera a casa di Raffaele; loro che, almeno per un certo tempo, avevo lasciato l’appartamento per vedere qualcuno». stato allora che viso d’angelo, la biondina che suona la chitarra, adora i Beatles e canta «Let it be», ha fatto il nome di Patrick Lumumba, il musicista congolese titolare del pub «Le Chic» dove lei lavorava come pierre.
«Sotto pressione»

« stato Pat a sgozzarla», disse agli inquirenti, ritagliando per sé un ruolo di semplice, ancorché insensibile, testimone oculare. Una confessione, a sentirla ieri, seduta di fronte alla Corte d’Assise di Perugia, camicetta bianca e capelli raccolti in un’ordinata coda di cavallo, estorta a forza di intimidazioni. una ritrattazione in piena regola, la sua: «Tutto ciò che ho detto, l’ho detto sotto pressione». Poi la stoccata: «Mi è stato suggerito dal pubblico ministero».
Quando l’avvocato Carlo Pacelli, difensore di parte civile del dj africano ingiustamente detenuto per due settimane, le chiede se sia stata la polizia a suggerirle di dire che Meredith, l’amica e coinquilina, aveva fatto sesso la notte dell’omicidio, Amanda risponde semplicemente sì. «Ero sotto pressione ed ho immaginato tante cose diverse», ha poi concluso la Knox. Quanto a Patrick, ha aggiunto: «In carcere, quando ho avuto tempo di pensare a ciò che era successo, mi sono resa conto della realtà, e stavo male pensando che Patrick era in carcere anche se non c’entrava nulla con questa storia. Che era stato incastrato per colpa mia».
Solo che i suoi sensi di colpa devono essersi placati abbastanza presto se Amanda, prima che le indagini appurassero l’estraneità di Patrick al delitto, mai ha sentito il bisogno di scagionare il suo ex datore di lavoro, né tantomeno di rivolgergli una parola di scuse. «Ha accusato Patrick per salvare se stessa?» ha chiesto l’avvocato Pacelli. «No» ha risposto Amanda.
E mentre Rudy Guede, condannato con rito abbreviato a trent’anni di reclusione, dal carcere di Viterbo la invita a raccontare tutto, («Amanda parla, tu sai la verità»), lei lo scarica brutalmente, ammettendo di conoscere solo superficialmente l’ivoriano. E mettendo a segno l’ultimo colpo dell’udienza dichiara: «I miei genitori mi dissero se volevo tornare a casa o andare da mia zia ma io dissi che volevo restare in Italia. Avevo faticato tanto per questa avventura qui a Perugia e non volevo buttare via tutto».

MARCO NEIROTTI
Amanda costretta da pressioni degli inquirenti? In aula risponderà alle stesse domande. Al di là del caso suo, le denunce di deposizioni estorte sono routine giudiziaria, talora reali e talora no. Ma - al di là della violenza fisica o della sistematica tortura psicologica - il tono delle domande, l’incalzare e interrompere sono strumenti oggettivi, tecnica che usa pure la difesa dello stupratore contro la povera donna che bisogna far riconoscere come puttana. E’ impensabile che un poliziotto o un pm che ci sospetta venga a dirci: «Pensiamo sia stato lei, ma se non ci dice niente fa lo stesso». Stare seduti davanti agli inquirenti è comunque stare dalla parte della lama mentre il manico del coltello è di là dal tavolo. La vera discrimante di una pressione psicologica che fa parte del gioco sta in un unico bivio: dimostrare narcisisticamente una tesi o cercare una verità perfino a prezzo di retromarce?


LA STAMPA
PERUGIA
Amanda Knox esce col volto disteso e sereno. Anche dopo sei ore di interrogatorio. E se è pur vero, come sostiene il suo legale, l’avvocato Luciano Ghirga, che il processo per la morte di Meredith Kercher, l’inglesina di Couldson uccisa a Perugia la notte tra il primo e il due novembre del 2007, non è una partita di calcio, è altrettanto indubitabile che Amanda ha convinto la stampa straniera.
Lei, la studentessa Erasmus dell’università di Washington, per loro ha superato la prova. «E’ andata bene», ha commentato, uscendo dal tribunale, Barbie Nadeau, giornalista del settimanale americano Newsweek, il magazine di proprietà del gruppo Washington Post nato oltre settant’anni fa. «Se ha detto la verità tout court o la sua verità, questo nessuno può saperlo», ha spiegato la giornalista statunitense. Che ha aggiunto: «Quella di oggi era un’udienza facile. E’ vero, lei non è crollata. Ma occorre essere cauti e attendere domani quando a interrogarla sarà l’accusa».
Che la giovane americana se la sia cavata bene ne è convinto anche Nick Squires, corrispondente da Roma del quotidiano britannico The Daily Telegraph: «Non è stato un brutto giorno per Amanda. E’ stata rilassata, ha parlato con chiarezza, in inglese e a tratti in fluente italiano».
A gettare qualche ombra sul comportamento dell’americana sono, secondo Squires, le mancate scuse a Patrick, trascinato nell’inchiesta e poi mollato. Raffaele Sollecito, presente anch’egli in udienza, ha scritto un biglietto al suo legale, confessando che quello per Amanda è stato davvero un amore a prima vista. Chi dice di non essere mai stato tanto fiero di Amanda, infine, è suo padre Kurt, entrato in aula, ieri mattina, dichiarando a gran voce che sarebbe andata in scena una nuova Amanda. Una nuova Amanda che, chissà perché, somiglia terribilmente alla solita, alla giovane studentessa dal viso acqua e sapone e gli occhi di ghiaccio.

***

LA STAMPA
GUIDO RUOTOLO
GUIDO RUOTOLO
ROMA
«E’ l’ennesimo colpo basso». Più che l’autodifesa di Amanda - le accuse di essere stata picchiata, imboccata nella chiamata in causa di Patrick Lumumba - i pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi sono amareggiati per la nuova campagna stampa d’Oltreoceano. «Era già successo alla vigilia della requisitoria, nella fase dell’udienza preliminare del processo. Adesso, alla vigilia della deposizione di Amanda Knox contro l’inchiesta sono partiti gli strali della stampa americana».
«Amanda - spiega l’accusa - ha riproposto una verità del tutto insostenibile, una visione onirica della realtà: ”Ho fatto il nome di Patrick perché poteva essere verosimile...”. E’ caduta in contraddizione evidente quando ha sostenuto che il nome Patrick è stato suggerito dall’accusa».
In questura, va detto, nella sua prima confessione agli investigatori della Mobile e dello Sco, lei fece il nome di Patrick Lumumba. A quel punto si sospese il verbale e fu chiamato di corsa in questura il sostituto procuratore Giuliano Mignini.
E le pressioni? Le botte? Amanda dice le in quelle stanze gli investigatori la incalzavano ben oltre il lecito. «Anche sulla storia delle presunte percosse - spiegano i pubblici ministeri - nelle prime udienze del processo, a fronte delle accuse di Amanda, diversi testi, dalle interpreti ai funzionari di polizia, hanno smentito le circostanze. Il processo sta confermano l’impianto accusatorio. I tecnici della Scientifica hanno confermato la validità dei testi sul dna e sulle impronte digitali».
E agli editorialisti americani, i pubblici ministeri suggeriscono di studiare il processo italiano: ”Un sistema in cui l’indagato è sempre garantito nei suoi diritti fondamentali. Siamo sicuri che alla fine del dibattimento dimostreremo che le uniche, vere pressioni in questa vicenda sono state quelle mediatiche».

LA REPUBBLICA
DAL NOSTRO INVIATO
PERUGIA - Camicetta bianca, pantaloni beige e scarpe basse azzurre come il nastro che le raccoglie i cappelli biondi in una coda vezzosa. Si presenta vestita come una laureanda Amanda Knox ieri nell´aula della Corte d´Assise di Perugia per quella che di certo è l´udienza più attesa dell´intero processo. A differenza di Raffaele Sollecito che appare sempre più provato, lei sembra non risentire della dieta del penitenziario. Anzi è leggermente ingrassata rispetto alle settimane scorse. Ad attendere il suo ingresso in aula ci sono decine di telecamere e taccuini arrivati da ogni parte degli States. Il presidente della Corte, Giancarlo Massei, pur avendo a suo tempo emesso un´ordinanza che vietava le riprese video e audio del dibattimento è costretto a prendere in considerazione le istanze che diverse tv hanno presentato nei giorni scorsi per filmare l´interrogatorio della giovane americana. Se la cava con una decisione salomonica: potranno essere ripresi solo cinque minuti dell´esame, il resto potrà essere registrato nella saletta riservata ai giornalisti.
«My name is Amanda Knox, I was born in Seattle the nine of July 1987» si presenta lei parlando in inglese. L´interprete che le siede accanto traduce parole per parola ma presto il suo intervento sarà superfluo. Dopo un anno e sette mesi in carcere l´italiano di Amanda è considerevolmente migliorato. Tocca all´avvocato Carlo Pacelli, il legale di Patrick Lumumba, in un primo tempo accusato dell´omicidio e ora parte lesa, porre le prime domande alla giovane americana. E Pacelli, che vuol dimostrare come il suo cliente sia finito in cella solo per le accuse di Amanda, va giù duro. Vuol sapere perché ha accusato Patrick di aver ucciso Meredith. Lei risponde con un tono deciso e da accusata si trasforma in accusatrice.
«La notte tra il 5 e il 6 novembre - dice - ero in questura. Non mi aspettavo di essere interrogata. I poliziotti mi domandavano se avevo idea di chi avesse ucciso Meredith e di ripetere che cosa avevo fatto quella notte. Patrick la sera del 1 novembre mi aveva mandato un sms per dirmi che non c´era bisogno che andassi a lavorare al pub. Gli avevo risposto: "Ok, see you later". Che alla lettera vuol dire "ci vediamo dopo" ma in quel caso era solo un ciao. Quando hanno trovato il mio messaggio a Patrick hanno cominciato a farmi pressioni, a chiamarmi stupida bugiarda, ha chiedermi chi volevo proteggere con il mio silenzio. Avevo tanta paura. L´interprete mi ha detto che forse per il trauma avevo dimenticato quello che era successo. Io ero sicura di essere rimasta a casa con Raffaele, di aver visto con lui il film "Il meraviglioso mondo di Amelie". Di aver fumato uno spinello e fatto l´amore. Ma avevo paura, tutti urlavano che mi avrebbero messo in prigione, continuavano a dire che avevo incontrato qualcuno, mi hanno picchiata due volte. Mi sono convinta che forse non ricordavo. Dicevano che era impossibile che non avessi sentito le urla di Mez. "Scriviamo allora che ti sei tappata le orecchie" hanno detto infine. E quando ripetevo che non ero nella sua stanza loro aggiungevano: "Allora eri in cucina?". Ero sotto pressione, ho immaginato tante cose diverse, mi hanno suggerito che lei era stata violentata...».
Accuse pesanti contro polizia e magistrato che Amanda ripete in modo più articolato quando ad interrogarla sono i suoi legali, Luciano Ghirga e Carlo Della Vedova. «Una poliziotta che era alle mie spalle mi fece così...» dice Amanda, mimando il gesto di due leggeri schiaffi alla nuca.
Cose già dette all´udienza preliminare ma ora in Corte d´assise il racconto di quella drammatica notte in questura ha un effetto dirompente. Il pubblico si divide tra chi le crede (pochi, a cominciare ovviamente da suo padre: «Non potrei essere più orgoglioso di lei») e chi la giudica un´attrice consumata. Filomena Romanelli, altra sua ex coinquilina, che siede nelle prime file, ripete sottovoce: « incoerente, continua a cambiare versione, non è così che è andata».
Ma basta leggere la lettera che Amanda ha scritto all´avvocato Ghirga il 9 novembre 2007, tre giorni dopo essere arrestata, per ritrovarci lo stesso racconto fatto ieri in aula. «Mi hanno detto di aver già arrestato l´assassino - aveva scritto allora - e che volevano solo che dicessi il suo nome ma non sapevo nulla. Un agente mi ha colpito alla testa due volte. La mia mente stava cercando delle risposte. Ero davvero confusa. Ho pensato di essere stata a casa del mio ragazzo ma se non fosse stato vero? Se non fossi stati in grado di ricordare? Ho tentato e ritentato ma non sono riuscita a ricordare nulla finché tutti gli agenti hanno lasciato la stanza ad eccezione di uno. Mi ha detto di essere l´unico in grado di evitare di farmi trascorrere i prossimi 30 anni in carcere... Ho immaginato di aver incontrato Patrick vicino ai campi di basket, ho immaginato di coprire le mie orecchie per non sentire le urla di Meredith e ho detto Patrick e ora me ne pento totalmente perché so che quello che ho detto ha fatto del male…».
Difficile stabilire se Amanda menta o dica il vero. Di certo ieri più che mai sul processo ha pesato il buco nero di quella notte in questura dove gli imputati venivano sentiti senza avvocati e dove l´uomo che oggi è parte lesa era creduto l´assassino. Oggi si replica: saranno i pm Mignini e Comodi a interrogare Amanda.

LA REPUBBLICA
CATERINA PASOLINI
CATERINA PASOLINI
ROMA - «Amanda? Per me quella ragazza è colpevole. Non è una dark lady, erano ben più complesse e oscure le donne del grande Chandler, ma neppure un´ingenua come la vogliono i giornali americani».
Marcello Fois, scrittore, romanziere, giallista che ha vinto il premio Calvino e quello dedicato al re del noir Scerbanenco, per misteri e delitti è portato tanto da scrivere sceneggiature tv (Distretto di polizia) e soprattutto libri con le indagini del commissario Massei e del giudice Corona. Sul caso di Perugia Fois - che il 27 giugno sarà a Roma per il Trastevere noir festival - si è fatto una sua idea ben precisa in cui hanno posto i luoghi comuni, la visione di molti «stranieri di un´Italia tutta libertà, mandolino, buon cibo e seduttori», tra dosi massicce di perbenismo, un tocco di morale e nessun senso di colpa.
Amanda viene descritta dai giornali come un angelo o un diavolo.
«Nessuno dei due. , come il suo compagno Raffaele, più semplicemente un´espressione della banalità del male».
Perché avrebbero ucciso?
«Moralismo, i due ragazzi sono perbenisti che si sono lasciati andare. Hanno ecceduto e poi hanno messo a tacere una studentessa che era stata al gioco ma poi aveva voluto uscirne».
I giornali americani dicono che i moralisti siamo noi e che per questo Amanda viene condannata prima della sentenza.
«Se lo fossimo il presidente del Consiglio si sarebbe dimesso fino a prova contraria. Noi non siamo neanche immorali, ma amorali, il peccato si lava cash, con la confessione».
Amanda racconta che la confessione le è stata estorta e suggerita.
«Non vedo perché i poliziotti avrebbero dovuto obbligarla, quale sarebbe stato l´interesse di accusarla. Casomai se c´è un problema nelle indagini è che c´è un difetto di umanità».
Difetto di umanità?
«Siamo più interessati alla sorte del possibile colpevole che alla vittima. A Raffaele ed Amanda piuttosto che a Meredith».
Il suo ispettore Massei come li definirebbe?
«Come figli del nostro tempo. Anni in cui nessuno è mai colpevole, in cui c´è una profonda difficoltà ad assumersi le responsabilità, anche quelle più elementari».
E tra di loro, secondo lei, Amanda e Raffaele come hanno interagito?
«Sono complementari, lei non è la vedova nera e lui non è quello manipolato».
Da Seattle a Perugia.
«Amanda soffre di stereotipi comuni a tanti stranieri. Del sottile pregiudizio per cui l´Italia è il posto dei creativi, la terra dove tutto è permesso e non c´è rigore, dove gli uomini sono grandi seduttori e tutti inaffidabili. Lei è venuta con in testa questo manuale di italianità, del tutto permesso, e ne è rimasta scottata. Persino i genitori sembrano lamentarsi più di un´Italia irriconoscente del tanto amore che Amanda ha sempre provato per il nostro paese piuttosto che del fatto che sia accusata ingiustamente».