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 2009  giugno 13 Sabato calendario

Passate le elezioni europee, restano i debiti. L’Italia ha ricominciato ad accumulare de­bito pubblico

Passate le elezioni europee, restano i debiti. L’Italia ha ricominciato ad accumulare de­bito pubblico. A marzo aveva superato i 1700 miliardi di euro. Alla fine dell’anno, secon­do il Fondo monetario internazionale, arriverà al 109% del prodotto interno lordo. Nel 2012 supe­rerà il 115%. Non sfonderemo il tetto del 120% come nei primi anni Novanta, se contiamo secon­do il Trattato di Maastricht, sfioreremo il 130% nel 2014 contando come fa l’Ocse. Ma resta il fat­to che la tendenza al riequilibrio dei conti pubbli­ci, a suo tempo considerata la condizione prima per entrare in Eurolandia, è ormai invertita. Ep­pure non sta suonando nessun vero allarme. The Economist titola: «Debito, il conto più salato del­la storia». E aggiunge la preghiera dei governi: «Signore, rendimi prudente, ma non subito». La paura della recessione fa premio sulla paura del debito: primum vivere. Ma ce lo possiamo per­mettere? Ovunque gli Stati sorreggono l’economia fa­cendo spese finanziate con nuove obbligazioni del Tesoro. Nel 2007, prima della tempesta, le economie del G20 avevano un debito pubblico medio del 78% della ricchezza generata ogni an­no. Il Fondo monetario stima che nel 2014 rag­giungeranno il 106%. Nei primi anni Novanta, l’Italia era l’unica media potenza, con il Belgio, ad avere i conti pubblici disastrati. Oggi è in buo­na compagnia. Ma a far sembrare oggi meno pre­occupante il debito pubblico c’è anche un pensie­ro a lungo teorizzato dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: se una crisi tanto grave deriva da un eccesso di debito di famiglie e finanza, che ha innescato le insolvenze, non si deve più consi­derare soltanto il debito pubblico, ma si deve guardare anche il debito del settore privato. E questo in Italia è meno pesante rispetto agli Usa, Paese preso a modello da almeno 20 anni. L’osservazione è vera, ma basta per rassicura­re? Se la debt economy è una malattia, il Belpaese non può dirsi al riparo. Secondo la Banca d’Italia (che fa i conti secondo Maastricht e non secondo l’Ocse), nel 1995 il debito di famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni era pari al 189,6% del Pil. Nel 2007 era salito al 210% e nel 2008 al 224,9%. Al dato globale concorre sempre meno lo Stato, ma ora, come abbiamo visto, sta ripren­dendo alla grande. E sempre più vi concorre il settore privato: in 15 anni l’esposizione delle fa­miglie sale dal 18 al 39% e quella delle imprese dal 53 all’80%. Certo, il modello Usa presenta altri numeri. Se­condo l’Ocse, unica fonte di informazioni compa­rabili su scala mondiale, il debito lordo globale (banche escluse) degli Usa era pari al 376% del Pil contro uno italiano del 297%. Nel 2007, alla vigilia della recessione, il debito lordo america­no era salito al 464% del Pil mentre quello italia­no era arrivato al 377%. Nei successivi 15 mesi, stando al rendiconto della Fed in attesa di elabo­razione all’Ocse, il debito lordo globale è cresciu­to di un altro 6%. Il confronto con la stella polare americana ci dice che, nel periodo 1995-2007, negli anni del boom prima della tempesta, l’Italia ha aumenta­to il suo debito globale di 27 punti di Pil% contro i 23 degli Usa. Dunque, la necessità di un rientro non tocca solo il mondo anglosassone delle inve­stment banks, ma anche l’Italia dei distretti indu­striali virtuosi e delle partite Iva. E questo tempe­ra le ragioni dell’ottimismo tremontiano. Ma gli stessi numeri fanno emergere un grande proble­ma politico. L’Italia come sistema è oggi meno indebitata degli Stati Uniti. Ma lo era anche ieri, nel 1995, quando pochi scommettevano sulla sua capacità di entrare nell’euro. Si può oggi ironizzare, come ha fatto Marco Fortis intervenendo nel dibattito del Sole 24 Ore sul futuro del capitalismo, osser­vando che il malato d’Europa non è più l’Italia, ma la Gran Bretagna o l’Irlanda, le star della vul­gata liberista. Resta il fatto che, con quei conti pubblici, l’Italia ha dovuto arginare i salari, ridur­re la spesa per le pensioni, privatizzare monopoli pubblici anche a costo di renderli preda della spe­culazione finanziaria e di indebolirli sul piano in­dustriale, Telecom docet. Alcune di queste mano­vre, specialmente la riforma delle pensioni, sa­rebbero state comunque necessarie e probabil­mente non sono nemmeno sufficienti con il pro­gressivo invecchiamento della popolazione. Ma va detto che, nello stesso anno, gli Usa, come si­stema, erano già più indebitati dell’Italia ed era­no tuttavia considerati esempio di virtù. Il Fon­do monetario non ha mai nemmeno pensato che potesse esistere un rischio Paese chiamato Usa. Solo adesso avvierà rispettosi monitoraggi. Un dato fa riflettere. Il 21% del Pil americano è costituito da ricchezza netta attratta dall’estero, soprattutto emettendo azioni. Poiché il Pil ameri­cano pesa per 14 mila miliardi di dollari, stiamo parlando di un finanziamento estero soprattutto in conto capitale di quasi tremila miliardi di dol­lari. L’Italia è sotto il 2%, oggi come nel 1995. Se­condo l’Ocse, le azioni estere possedute da ameri­cani sono aumentate dal 16,7% del Pil del 1995 al 40,2% del 2007, ma quelle cedute da emittenti americane a investitori esteri sono salite da 23,2 al 62,2% del Pil con una velocità che negli ultimi 5 anni ha subito una clamorosa impennata. Alcuni giocatori di poker, quando perdono, raddoppiano la puntata nella speranza di recupe­rare tutto. Tentano, si dice in gergo, la «martinga­la ». Sulla carta, per chi disponesse di un capitale infinito, il successo sarebbe garantito perché un bel giorno la mano buona non può non venire. Al tavolo verde, però, è il massimo dei rischi e gli altri giocatori chiedono garanzie. Negli ultimi an­ni, gli Usa si sono indebitati a ritmi crescenti nel­la convinzione che, essendo il dollaro la moneta di riserva del mondo, avrebbero potuto emettere debito in dollari a volontà. Ora i Paesi più virtuosi, la Cina e la Germania, non sembrano più tanto disposti concedere al dottor Bernanke il diritto alla martingala. Il can­celliere Angela Merkel chiede un maggior impe­gno per la stabilità alla stessa Banca centrale eu­ropea e Zhou Xiaochuan, banchiere centrale cine­se, ha già proposto, con un breve saggio disponi­bile sul sito della People’s Bank of China, di sosti­tuire il dollaro con i diritti speciali di prelievo co­stituiti da un paniere delle monete più importan­ti. E nonostante il fermo rigetto americano, conti­nua a parlarne con i colleghi del G20. Ma questo non comporta automaticamente un vantaggio per l’Italia, il cui debito pubblico è in parte collo­cato all’estero. Certo, si può apprezzare la minor insidia che può arrivare dal settore privato, e tut­tavia è lecito chiedersi quanta parte della ricchez­za delle famiglie, che possono investire a loro vol­ta in titoli esteri, sia in effetti disponibile quale garanzia della mano pubblica italiana e come l’economia sarà in grado di generare entrate fi­scali per pagare gli interessi e ridurre l’esposizio­ne. Alla fine, saranno i tassi d’interesse, che misu­rano la percezione del rischio da parte dei merca­ti, a stabilire se ha ragione Tremonti o l’Econo­mist che continua a guardare soltanto al debito pubblico. Massimo Mucchetti *** Nonostante tutto, il rating del debito pubblico americano non cambia. AAA stabile confermano in coro Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch. L’eccellen­za. Agli analisti non sfugge l’impatto della recessio­ne, peraltro regolarmente peggiore delle previsioni, sui conti pubblici degli Stati Uniti che scivolano ver­so la fascia bassa del club della tripla A. Si chiedono se l’attuale deterioramento segni l’inizio di una ten­denza di lungo periodo o se possa essere recuperato quando la caduta dell’economia avrà termine. Ma lo scenario base prevede che la potenza economica americana riemerga dalla crisi senza gravi problemi. Come fanno da sempre, le agenzie di rating non considerano il debito del settore privato portatore di rischi anche per l’emittente pubblico, benché ai profani la cosa sembri ormai evidente: non solo le banche ma anche le grandi imprese americane assor­bono spesa pubblica aggiuntiva sia in conto capitale che a titolo di finanziamenti delle più diverse spe­cie, senza contare le garanzie. Illuminante è l’opinione di Moody’s, datata mag­gio 2009. Quest’anno il bilancio pubblico Usa chiude­rà con un deficit di 1800 miliardi di dollari, pari al 12,9% del Pil, il peggior risultato dal 1945, quando superò il 21%. Il debito federale, che è solo una parte del debito pubblico, passerà dal 40,8% al 60% nel 2009 e al 67% l’anno dopo. Già ora è pari a 4 volte le entrate fiscali dell’anno, una proporzione alta nel club dell’eccellenza. Ma i tassi passivi eccezional­mente modesti e i flussi di interessi e dividendi deri­vanti dalle attività comprate dalle banche e da Fred­die Mac e Fannie Mae potranno aiutare. Moody’s considera anche il debito pubblico locale, come del resto fa tutta Eurolandia, e così stima un debito pub­blico al 73% del Pil nel 2008 e al 94% nel 2010. Ma qui si ferma. Il debito contratto dal governo con i fondi pensione dei dipendenti pubblici, che sono co­stretti a cedere al Tesoro i loro provvisori surplus di liquidità in cambio di certificati non negoziabili, vie­ne lasciato da parte. Le agenzie di rating fanno proprio il punto di vi­sta del governo e assai meno quello più rigoroso del­l’Ufficio Bilancio del Congresso, organismo biparti­san che invita a tenere in maggior conto le contin­gent liabilities, ovvero i debiti potenziali. Moody’s ricorda che, secondo scenari più severi degli stress test del governo, potrebbero emergere nelle banche ulteriori perdite per mille miliardi; che le garanzie federali ormai ammontano a 5 mila miliardi; che infi­ne l’onere attualizzato della Sicurezza sociale e sani­taria sarà di 43 mila miliardi proiettati su 75 anni. Ma, aggiunge, le perdite bancarie si manifesteran­no, se sarà, un po’ alla volta, le garanzie non verran­no escusse se non in minima parte e il governo prov­vederà per tempo su pensioni e sanità. La fiducia nelle istituzioni, insomma, è massima: grande come quella riposta nella flessibilità e nella propensione all’innovazione dell’economia. Ma for­se il vero pilastro che sostiene la tripla A delle obbli­gazioni statali americane è il ruolo del dollaro quale moneta di riserva mondiale.  un’opinione, questa, che ha alle spalle una gran­de storia. Nella quale gli Usa hanno dimostrato di poter scaricare le loro tensioni sugli investitori este­ri che comprano obbligazioni e azioni denominate in dollari. Con la svalutazione del dollaro, questi ora contano le perdite. Il banchiere centrale cinese Zhou Xiaochuan propone i diritti speciali di prelievo qua­le nuovo moneta mondiale? Le tre regine del rating non lo considerano. Per loro è la Cina, e non l’impe­rialismo americano, la tigre di carta. M. Mucch.