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 2009  giugno 13 Sabato calendario

ROMA – Tradurre Ghedda­fi è stata un’impresa. Non so­no bastati due interpreti, uno libico e l’altro egiziano

ROMA – Tradurre Ghedda­fi è stata un’impresa. Non so­no bastati due interpreti, uno libico e l’altro egiziano. All’Uni­versità La Sapienza, giovedì po­meriggio, è dovuto scendere in campo pure l’ambasciatore in persona, Abdulhafed Gad­dur, chiamato in soccorso dal Colonnello che voleva parlare nel suo dialetto per farsi capire bene. Risultato? «La traduzio­ne dei suoi discorsi a volte non m’è sembrata corretta – rac­conta Mohamed Yossef Ismail, reporter di Canale Nilo, l’uni­co giornalista arabo presente a tutti gli incontri romani del raìs ”. In Campidoglio, per esempio, lui non ha mai detto che i partiti sono ’un aborto’ della democrazia. Quella paro­la, ’aborto’, lui non l’ha mai pronunciata, ne sono certo. Il suo tono non mi sembrava af­fatto così polemico...». Prova­re a riascoltare il nastro, però, non è semplice. Alla ’Di and Di Lighting’, il service televisivo che ha curato in esclusiva le ri­prese della visita ufficiale, la ri­sposta è laconica: «Ci dispiace, tutti i video sono stati conse­gnati subito all’ambasciata, non ne abbiamo conservato neppure una copia, l’accordo era questo». Una vita difficile, quella del­l’interprete. I due traduttori al­la fine di questo tour de force romano sono letteralmente sfi­niti: «Secondo l’Organizzazio­ne mondiale della sanità i me­stieri più stressanti del mondo sono l’astronauta, il pilota di caccia e il nostro» scherza Re­da Hammad, 44 anni, l’inter­prete egiziano che ha tradotto i discorsi di Gheddafi al Senato e a Villa Madama. Tre giorni d’inferno: «L’altro giorno a La Sapienza – racconta – il mio collega libico aveva parlato già per mezz’ora, così il Colonnel­lo ha deciso di farlo riposare e sono subentrato io, ma poi ap­pena ha sentito il mio accento egiziano, non so perché, ha chiesto subito all’ambasciato­re Gaddur di prendere il mio posto. Non mi sono offeso, ci mancherebbe. Così sono rima­sto accanto all’ambasciatore a suggerirgli qualche parola, di tanto in tanto. Anche all’Audi­torium (ieri, ndr) ho sudato le sette camicie: col ministro Car­fagna, le 700 donne e Ghedda­fi. Però è andata bene, mi pa­re ». «L’arabo è una lingua ricca di sfumature – dottoreggia Sa­lameh Ashour, professore di cultura islamica a Roma ”. Se poi parla Gheddafi allora non basta conoscere solo il vocabo­­lario, occorre una grande cultu­ra politica per rendere bene il senso di ciò che dice. Gheddafi non pensa che l’America è co­me Bin Laden, non l’ha mai det­to. Lui ha detto che bombarda­re la sua casa nell’86, questo sì, fu un atto di terrorismo da par­te del governo americano di al­lora. cosa ben diversa». Una questione di sfumature, dun­que. «Sicuro. Il mio collega libi­co – garantisce per lui Reda Hammad, che lavora per il go­verno italiano – non ha affat­to sbagliato la traduzione. Lui traduce il libico parola per pa­rola, io invece tendo più ad ita­lianizzare, ma vi assicuro che né io né lui abbiamo fatto in questi tre giorni errori gravi». «Purtroppo capita, sapete? La topica è dietro l’angolo – conclude l’interprete egiziano ”. Una volta un collega giap­ponese per tradurre a un rap­presentante del suo governo l’espressione scherzosa usata da un ministro italiano, non chiedetemi chi, ’lo spirito è for­te ma la carne è debole’, disse così: ’Whisky is strong but the steak is weak’, il whisky è for­te ma la bistecca è debole... Il ministro giapponese rimase piuttosto perplesso. Perciò, ec­co, mi sento di dire che noi due, il libico e l’egiziano, errori di questo tipo non ne abbiamo commessi. Anzi, alla fine, la de­legazione del Colonnello era piuttosto soddisfatta. Non ho letto smentite sui giornali». Fabrizio Caccia