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 2009  giugno 12 Venerdì calendario

SUFFRAGIO UNIVERSALE UNA RIVOLUZIONE ITALIANA


Non so spiegarmi come mai Giolitti, che secondo molti è stato fra i più illuminati governanti liberali che l’Italia abbia avuto, si sia battuto per il suffragio universale sapendo in partenza che esso avrebbe affossato il suo stesso partito o l’idea che lui medesimo incarnava. Non è forse un esempio di suicidio politico?
Lorenzo Milanesi
Milano

Caro Milanesi,
Lei allude alle elezioni del 1913 nelle quali, per la prima volta in Italia il suffragio, pur restan­do esclusivamente maschile, fu esteso senza distinzioni di censo anche agli analfabeti che avessero fatto il servizio militare o compiuto trent’an­ni. Dalla relazione di Giolitti al re per lo scioglimento del­la Camera, risultò che gli elet­tori sarebbero pressoché tri­plicati: da 3.319.207 a 8.672.249. Con l’allargamen­to del suffragio Giolitti pro­pose un’altra misura: una in­dennità parlamentare (6 mi­la lire all’anno) per tutti i de­putati che non avessero sti­pendio o pensione a carico del bilancio dello Stato. Ai fautori dell’indennità, in an­ni precedenti, Giolitti aveva sempre dato una risposta che piacerebbe agli autori e ai lettori de «La casta»: «Il Pa­ese stimerà più il Parlamen­to quando i deputati saranno pagati, o attualmente che non lo sono?». Ma nel 1913 cambiò idea sostenendo che occorreva, con l’allargamen­to del suffragio, favorire la presenza in Parlamento di de­putati provenienti dalle clas­si di cui erano rappresentan­ti.

Questa «rivoluzione» fu giudicata in modi diversi. Molti applaudirono, ma qual­cuno sostenne che il suffra­gio universale e l’indennità erano la mossa opportunisti­ca con cui un politico scaltro sperava di comperare la colla­borazione dei socialisti al go­verno. Il disegno, se queste erano le intenzioni, fallì. Ma non credo che fosse la princi­pale motivazione della rifor­ma. Giolitti agiva a mente fredda, senza entusiasmi ide­alistici, ma sapeva guardare lontano. Era convinto che l’Italia non potesse crescere economicamente e social­mente senza allargare il nu­mero di coloro che partecipa­vano alla vita pubblica. Nel ventennio precedente il Pae­se aveva fatto grandi progres­si, risanato il debito estero, conquistato una colonia sul­la sponda settentrionale del­l’Africa. Era ora che il suo si­stema elettorale venisse cor­retto e adattato alla realtà so­ciale.

Giolitti sapeva tuttavia che il suffragio universale avrebbe rafforzato le sini­stre. Da questa preoccupazio­ne nacque il «patto Gentilo­ni »: una intesa che avrebbe garantito a Giolitti l’appog­gio dei cattolici contro l’im­pegno ad accantonare la leg­ge sul divorzio, difendere le scuole confessionali, garanti­re alle attività economico-so­ciali dei cattolici lo stesso trattamento che lo Stato ri­servava a quelle dei laici. Nel­le elezioni del 1913 i votanti furono 5.100.615, vale a dire circa il 60% degli aventi dirit­to. I deputati giolittiani furo­no 304, i socialisti 52, i socia­listi riformisti 19, i radicali 73, i repubblicani 17 e i catto­lici 20. Per Giolitti, quindi, non si trattò di un suicidio. Il declino della democrazia li­berale comincia con la legge proporzionale del 1919; e non fu colpa sua.